Lorenzo Puliti (1980) si è laureato in Storia della Musica all’Università degli Studi di Firenze e ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Musicologia presso il Dipartimento di Storia delle Arti e dello Spettacolo della stessa Università. Membro del consiglio direttivo e segretario dell’associazione culturale ICAMus (The International Center for American Music), la sua attività di ricerca è incentrata per lo più sulla produzione musicale statunitense e sulle esperienze di confine fra musica "colta" e popular. Ha all’attivo varie pubblicazioni e conferenze su George Gershwin, Leonard Bernstein, Edward Van Halen, Fryderyk Chopin, Franco Alfano, Luigi Parigi e la critica musicale italiana del primo Novecento.

Lo scorso 2 maggio si è tenuta a Milano la presentazione della nuova edizione del libro Il senso religioso di Luigi Giussani, long seller tradotto in più di venti lingue, ridato alle stampe con una nuova prefazione a cura dell’allora cardinale Jorge Mario Bergoglio. Si tratta di un libro affascinante per chiunque sia impegnato con la questione del significato della vita e la ricerca della verità (cose un po’ demodé, ormai, e questo mi pare di per sé già molto preoccupante) e che testimonia la grande attualità della proposta educativa di Giussani, capace, sia in questo che in altri testi, di fornire criteri interpretativi utili a penetrare non solo il periodo storico in cui vennero scritti, ma anche la mentalità della nostra epoca, mettendone a nudo incoerenze e storture.

La visione antropologica che sta prendendo sempre più piede nella nostra contemporaneità, in buona parte riconducibile a ideologie definite come Woke, Cancel Culture o Gender, ha tratti ben definiti e Giussani ci viene in aiuto fornendoci una chiave di lettura illuminante per capire cosa c’è al fondo della questione sottesa a tale nuova antropologia.

Da un’analisi di superficie si potrebbe definirla con una semplice formula: oggi il “sentire” conta più dell’“essere”. Per la nostra epoca il sentimento ha un’importanza sproporzionata, tanto da imporsi sulla realtà (sull’essere) fino a deformarla o addirittura negarla. In nome di un sentire si nega l’esistenza di ciò che è, o si sceglie di non essere ciò che si è.

È diventato possibile dichiararsi donna e non essere più uomo e viceversa, basta sceglierlo e registrarsi di conseguenza (si veda la Ley Trans in Spagna [1]). Il politically correct ha fatto sì che alcuni termini che indicano realtà di fatto non si possano più utilizzare perché urtano la sensibilità di alcuni, e gli estremismi della Cancel Culture stanno proseguendo l’opera, ripulendo arte e letteratura di tutto ciò che non è degno di essere ascoltato (si è cominciato con la rimozione di alcuni corsi universitari per passare poi a monumenti, statue, serie tv, cartoni animati e romanzi, ultimo il caso di Roald Dahl).

Siamo diventati ipersensibili a quanto pare e la realtà virtuale è diventata il nostro rifugio preferito, grazie a “bolle” social dove possiamo silenziare le voci di dissenso e farci compiacere da un algoritmo che conosce i nostri gusti, ri-propinandoci sempre lo stesso punto di vista sul mondo: è così che ci convinciamo di quanto abbiamo ragione.

Intendiamoci: il sentimento e la soggettività sono aspetti fondamentali dell’esperienza umana e non si vuole qui ridimensionarne l’importanza; solo che ogni cosa ha un suo posto nel mondo e i problemi si hanno quando un aspetto prevarica sull’altro. La funzione del sentimento non può quindi essere quella di piegare la realtà al proprio capriccio e così farla coincidere con la propria immaginazione.

Molti vedono in queste nuove rivendicazioni i segni di un progresso civile, l’approssimarsi di un traguardo trasognato, quello dell’autodeterminazione assoluta, l’affermazione dell’individuo, il quale, affrancandosi finalmente da ogni condizionamento oggettivo, raggiungerebbe la tanto agognata libertà. L’essere come ostacolo, il dato preesistente come condizionamento da abbattere per essere finalmente liberi e felici. In poche parole: se una realtà è scomoda o spiacevole, perché non rimuoverla? Ma siamo sicuri che l’essere umano per essere sé stesso abbia bisogno di liberarsi del dato preesistente? Se anche ci riuscisse, sarebbe di un millimetro più vicino al suo destino di felicità? Basta seguire il proprio sentimento o i propri impulsi per essere liberi?

Se la strada fosse così facile saremmo tutti già al traguardo. Ma il punto è: come siamo arrivati a questo soggettivismo estremo, a questa dittatura del sentimento che rifiuta con tanta facilità la realtà oggettiva? Sebbene la tentazione di obliterare il reale, quando risulta scomodo, sia un rischio permanente per l’essere umano, l’apporto in questo fornito dalla mentalità dominante è tutt’altro che trascurabile, e il punto è proprio questo: come la nostra epoca è pervenuta a tali convinzioni?

Certamente ci sono interessi economici e potentati che hanno le loro «ragioni per stordire il popolo»[2], ma senza la “connivenza” di quest’ultimo avrebbero potuto fare ben poco (ognuno di noi ha le sue responsabilità in questo). Piuttosto ciò a cui assistiamo oggi è l’esito di un percorso storico compiuto dalla coscienza umana di cui penso sia utile prendere atto, in quanto può aiutarci nella correzione, anche per chi pensa di essere estraneo al problema. Ed è proprio qui che Luigi Giussani ci viene in aiuto.

Egli individua nel razionalismo (non nella razionalità sia ben inteso) il tratto fondamentale del nostro tempo, da cui deriva l’incapacità di conoscenza e mancanza di realismo che ci caratterizzano[3]. Cos’è il razionalismo? È la ragione per la nostra epoca, cioè esclusivamente capacità di misura, per cui esiste solo ciò che possiamo definire. Ciò che la ragione avverte, ma è incapace di misurare, non esiste, o comunque non è importante. La mia misura è il giudice supremo della realtà, fino a decidere che può anche non esistere, perlomeno in alcuni suoi aspetti (cosa piuttosto irrazionale se pensiamo che la realtà preesiste, viene prima di noi).

Si oblitera quindi ciò che non ci va a genio in nome della ragione, perché concepita in modo ridotto, esclusivamente come capacità di misura appunto. Da qui deriva l’ideologia, una concezione della realtà semplificata, ridotta, affrontata a partire da un preconcetto, e non da una reale apertura e tensione a conoscerla nella sua complessità (per Giussani la ragione autentica è «coscienza della realtà secondo tutti i fattori», anche quelli che non si riescono a misurare):

invece che imparare dalla realtà in tutti i suoi dati, costruendo su di essa, si cerca di manipolare la realtà secondo le coerenze di uno schema fabbricato dall’intelletto: «così il trionfo delle ideologie consacra la rovina della civiltà»[4].

Per dirla con una celebre frase di Hannah Arendt, «l’ideologia non è l’ingenua accettazione del visibile [cioè del reale], ma la sua intelligente destituzione»[5].

Seguendo Giussani nel suo percorso, scopriamo che proprio di questo approccio ideologico («riduttivo della realtà a propria misura») è l’identificazione del reale con l’apparenza, per cui la realtà viene svuotata del suo valore di segno o rimando ad altro. La realtà per sua natura non è infatti riducibile al suo aspetto immediatamente di superficie, essa chiede, impone, di essere indagata nel suo significato, nel suo scopo. Cosa che il razionalismo non fa. Nel rapporto con il dato, con i fatti, si arresta «la capacità umana di addentrarsi alla ricerca del significato, cui innegabilmente il fatto stesso del nostro rapporto con la realtà sollecita l’umana intelligenza»[6]. Le “cose” sarebbero quindi da prendere così, per come sono, senza farsi domande circa il loro significato, cioè senza porsi il problema di come stiano in rapporto con le altre, con il contesto, con il tutto. Di conseguenza, un singolo aspetto, ad esempio il proprio “sentire”, domina su tutto e non importa affatto che altri fattori dell’esperienza sembrino contraddirlo.

Ecco che così si cessa di ricercare il senso delle cose: ne è un esempio chiaro l’ideologia Gender che, invece di partire dall’evidenza del dato biologico per promuovere una miglior conoscenza di sé, propone di eliminarlo, propagandando una visione del genere sessuale totalmente slegata dalla condizione naturale in cui ci si trova. Se un segno è ridotto a semplice apparenza non ha più alcun senso, quindi può significare tutto, fino a contraddire se stesso: che problema c’è se io, pur essendo donna, voglio definirmi come uomo? L’evidenza naturale non porta in sé alcuna indicazione concreta sulla persona, essa ne è totalmente indipendente, come si evince dal sogno dell’antropologa Gayle Rubin.

Noi non siamo oppresse solo come donne, siamo oppresse per dover essere donne o uomini, a seconda dei casi. Io personalmente credo che il movimento femminista debba aspirare a qualcosa di più dell’eliminazione dell’oppressione femminile. Deve aspirare all’eliminazione dei ruoli sessuali imposti. Il sogno che trovo più stimolante è quello di una società androgina e senza genere (ma non senza sesso), in cui l’anatomia individuale sia irrilevante ai fini di chi si è, cosa si fa, e con chi si fa l’amore[7].

Eccoci quindi giunti al terzo passaggio proposto da Giussani: l’eliminazione del valore di segno implica il sentimento come unico criterio d’azione, un sentimento che, preso da solo, slegato da tutto, agisce come pura reattività, come un fenomeno puramente animalesco. Ecco su questo un’illuminante affermazione di Cesare Pavese: «Non ho ancora compreso quale sia il tragico dell’esistenza […]. Eppure è tanto chiaro: bisogna vincere l’abbandono voluttuoso, smettere di considerare gli stati d’animo quali scopo a se stessi»[8].

Il “sentire” dunque non è fine a se stesso, ha un suo significato e un suo scopo, e capire quale sia è la grande sfida che ci viene posta. Accettarla non è scontato né tanto meno banale. Torneremo su questo fra poco.

Prima mi preme constatare un fenomeno interessante: proprio il razionalismo, con la sua pretesa di misurare tutto, ha prodotto come esito ciò che dovrebbe trovarsi agli antipodi della ragione stessa, un sentimentalismo estremo, la pura esaltazione (ed estremizzazione) del non misurabile. Ecco cosa scrive Henri Hude sull’ideologia Woke:

Il Woke non è un prodotto della ragione. Il primo grido dei suoi militanti è stato: «Smettete di ragionare! La logica è razzista». Ecco i suoi assiomi: «Il concetto stesso di matematica è falso». «L’oggettività è un mito». L’idea di scienza rigorosa è una «violenza epistemica»[9].

Ma come si realizza questo passaggio? Come dal razionalismo si è giunti alla dittatura del sentimento? Prendiamo ancora spunto da Giussani:

Se l’uomo non è sollecitato a una coscienza di sé, se non è educato […] è abbandonato a input istintivi, a reazioni, a una reattività, in cui predomina l’aspetto animalesco, come livello di fattura. Il razionalismo tende a concepire la ragione come luogo della verità: la verità è quello che la ragione ammette […], e così essa finisce con l’idealizzare ciò che sente. Noi finiamo sempre col tendere a idealizzare ciò che sentiamo o, più ancora, a identificare il vero con ciò che sentiamo[10].

Qui sta la radice dell’ideologia corrente, un razionalismo che sfocia inevitabilmente in sentimentalismo. Ciò che entrambi hanno in comune è reperire la misura della realtà in sé. Sia essa una capacità dimostrativa o il proprio sentire, la verità è invece qualcosa da cercare al di fuori di noi, e la ragione e il sentimento non sono altro che gli strumenti che ci sono dati per identificarla, non sono fini a se stessi. La ragione è da spalancare.

Razionalismo e sentimentalismo hanno quindi la prerogativa di isolare un particolare dal contesto, sia esso “sentito” o razionalizzato, e proiettarlo sulla realtà. In sostanza ciò che li caratterizza è una mancanza di realismo, il quale «esige che, per osservare un oggetto in modo tale da conoscerlo, il metodo non sia immaginato, pensato, organizzato o creato dal soggetto, ma imposto dall’oggetto»[11].

La realtà, tanto quella immanente a sé (ad esempio, la propria condizione sessuale) quanto quella al di fuori di sé (i condizionamenti esterni, le circostanze in cui viviamo e che ci possono anche far soffrire), è oggettiva e anche se la si vuole cambiare, chiamare in altri modi, darle nuovi nomi, far finta di non vederla o che non esista, essa rimarrà quel che è, non c’è niente da fare. L’essere preesiste a noi. E se la realtà fosse qualcosa su cui costruire, piuttosto che un ostacolo da rimuovere?

L’ostinatezza della realtà è proprio la più grande spia che documenta la falsità di queste nuove “ideologie ipersensibili”: basti pensare alla battaglia dello scorso marzo portata avanti dal sindaco Beppe Sala in favore delle trascrizioni dei figli delle coppie omogenitoriali, una battaglia che, come ha rilevato Marina Terragni, dimentica un aspetto fondamentale: per far nascere una persona, qualsiasi sia stato il procedimento utilizzato, c’è comunque sempre bisogno di un padre e di una madre. Dunque trascrivere 2 padri o 2 madri su un atto di nascita non solo equivale a dichiarare il falso, ma priva il bambino di un sacrosanto diritto, quello di conoscere le sue origini[12].

Le stesse operazioni di “cambio di sesso”, la grande conquista tecnologica dell’ideologia gender fluid, sono sufficienti a fare di un uomo una donna e viceversa? Anche in questo caso il progetto è destinato a scontrarsi con la realtà, come spiega bene Mariolina Ceriotti Migliarese, neuropsichiatra infantile e psicoterapeuta:

La differenza sessuale […] non è una qualità tra le tante come essere alti, bassi, belli, brutti […] ma una specificazione dell’essere, perché noi veniamo al mondo, nella realtà, in 2 forme sessualmente differenti, al maschile e al femminile e questa è una cosa che niente può modificare. Nemmeno gli interventi di cambio di sesso possono modificare il fatto che una persona abbia tutte le sue cellule e il Dna caratterizzato al maschile o al femminile, e anche avendo fatto un cambio di sesso, un maschio non diventerà mai una femmina, come una femmina non diventerà mai un maschio; questo dobbiamo averlo chiaro[13].

Come afferma Alberto Frigerio[14], la cosiddetta Gender Theory ha avuto sì il merito di cogliere un aspetto vero, quello per cui la sessualità nell’uomo non coincide solo con l’aspetto biologico, anche altri aspetti ne sono infatti coinvolti (psicologico, culturale, simbolico), ciò non significa però che l’evidenza biologica possa essere rimossa a piacimento. Essa costituisce piuttosto un’indicazione oggettiva, un orientamento che ci muove ad aprirci verso l’altro, al differente da sé.

Poniamoci adesso infine un’ultima domanda: ma perché questa ritrosia e fatica ad affermare la realtà, a farci imporre il metodo dall’oggetto? Cos’è che ci suscita così tanta avversione da indurci piuttosto a preferire una lotta contro l’evidenza che ci vede inevitabilmente perdenti già in partenza? Il realismo, cioè accettare il reale per come si presenta nella sua interezza e costruire su di esso, richiede di ospitare una misura che non è la propria, richiede di mettere in discussione il nostro pregiudizio, richiede di per sé un sacrificio. E «per fare un sacrificio occorre vedere, intravedere, una positività. Il sacrificio per il sacrificio, come negazione, come mutilazione, non può essere concepibile». Non solo per fare un sacrificio occorre l’intuizione di una positività per cui valga la pena farlo, ma il sacrificio in sé «è un atto d’amore, in quanto affermazione della positività di tutto il vivere, sia come riconoscimento dell’Ente supremo, sia nell’attuare il riconoscimento della propria vita come riflesso su tutto l’universo»[15].

Noi oggi siamo sempre più incapaci di fare sacrifici. Non è che siamo più egoisti o meno inclini al sacrificio “per natura”, semplicemente ci manca come il pane il senso del tutto, la certezza di un destino inesorabilmente positivo. Solo in questo, il sacrificio dell’amore alla realtà, della sua affermazione nella sua interezza, può trovare le sue ragioni adeguate.

Per questo c’è un grande bisogno di realtà che educhino e facciano intravedere la positività ultima del vivere e la convenienza umana del sacrificio:

Chi non fa il sacrificio in un rapporto non ha in mano il rapporto, non l’ha ancora attuato! […] L’appartenenza a un movimento, o a una realtà sociale nella misura in cui interessa la vita e ‘pretende’ di decidere della vita, rende possibile una educazione (uno sviluppo della coscienza dell’uomo) a capire che la realtà, nella sua sollecitazione o nella sua provocazione, mira a una positività: la positività dell’Essere[16].

In queste realtà sta la nostra più grande speranza.

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NOTE

[1] G. Rodriquez, Spagna. Approvata la “ley trans”: si potrà cambiare sesso all’anagrafe senza obbligo di attestazione medica e terapia ormonale, in «Quotidianosanità.it», 16 febbraio 2023, link.

[2] H. Dude, Alle radici dell’oscurantismo woke, in «Tempi», 2 maggio 2023, link.

[3] L. Giussani, Dare la vita per l’opera di un Altro, Bur, Milano 2021, p.76.

[4] L. Giussani, Il senso religioso, pref. di J.M. Bergoglio, Bur, Milano 2023, p. 4.

[5] H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Milano 1996, pp. 645, 649.

[6] L. Giussani, Dare la vita per l’opera di un Altro, cit., p. 81.

[7] G. Rubin, The Traffic in Women: Notes on the “Political Economy” of Sex, in R. R. Reiter (a cura di), Toward an Anthropology of Women, Monthly Review Press, New York-London 1975, p. 60.

[8] L. Giussani, Dare la vita per l’opera di un Altro, cit., p. 85.

[9] H. Hude, Alle radici dell’oscurantismo woke, cit.

[10] L. Giussani, Dare la vita per l’opera di un Altro, cit., p. 120.

[11] Id., Il senso religioso, cit., p. 5.

[12] Redazione, Sala strigliato dal prefetto: stop al riconoscimento alla nascita dei figli degli Lgbt, in «Tempi», 15 marzo 2023, link.

[13] Il caso serio: io chi sono? Fragilità e identità sessuale, incontro tenuto organizzato dal Centro Culturale di Milano il 12 Aprile 2023, link.

[14] La visione dell’autore sull’argomento è espressa in A. Frigerio, L’enigma della sessualità umana, Glossa Editrice, Milano 2022.

[15] L. Giussani, Dare la vita per l’opera di un Altro, cit., p. 123.

[16] Id., Dare la vita per l’opera di un Altro, cit., pp. 123-124.

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