Federico Nicolosi (2004) studia Filosofia presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Catania. Si interessa di questioni concernenti la filosofia teoretica, con particolare riguardo all'ontologia e alla metafisica. Attuali temi favoriti della sua ricerca sono il desiderio e il fenomeno amoroso all'interno di una prospettiva fenomenologica.

Recensione a: D. Dibitonto, Luce, oscurità e colore del desiderio. Un’eredità non ancora indagata della filosofia di Ernst Bloch, Mimesis, Milano-Udine 2010, pp. 194, € 16,00.

È con un acume speculativo fuori dal comune e uno stile vibrante, che non ripudia il dire oscuro e immaginifico dello gnosticismo, che Daria Dibitonto si confronta in Luce, oscurità e colore del desiderio. Un’eredità non ancora indagata della filosofia di Ernst Bloch (Mimesis, Milano-Udine 2009) con quello che in fondo, oltre ogni concreto riscontro all’interno della filosofia di Ernst Bloch, è il problema cardine del pensare in quanto sua condizione prima e drasticamente astratta. Questo denso saggio, così, non vuole limitarsi, nonostante le promesse iniziali, a «smuovere e mettere alla prova il pensiero blochiano dal suo interno, e rintracciare, nel percorso di smontaggio e rimontaggio, un’eredità non ancora indagata del suo pensiero, eppur attualissima: il radicamento della speranza nel desiderio» (p. 15). Lungi dal configurarsi come un freddo studio esegetico teso a scandagliare un tratto inesplorato degli scritti di Bloch, esso intende infatti pensare il desiderio nelle sue multivoche sfaccettature logiche, ontologiche ed epistemologiche, sino a tracciarne un ritratto «che assume i toni dominanti del blu, simbolo di profondità, del rosso, simbolo di passione e solidarietà, e del giallo-oro, simbolo di luminosa e concreta spiritualità» (p. 19).

Il de-siderare, come lo hanno tematizzato i Latini ma come invero già Platone aveva magistralmente intravvisto, non è puro e semplice tendere a quella cosa permeato dell’opprimente e a un tempo deliziosa sensazione di non poterla mai conquistare in via definitiva. De-siderio, nella sua connotazione ontologico-metafisica primigenia, è esperienza dell’Io e dell’universo circostante: è uscire fuori di sé per incontrare l’altro (nel senso più lato del termine) e in esso ritrovarsi come sua possibilità logica, «consapevoli che questa scoperta non è passiva contemplazione né banale adeguazione, ma attiva trasformazione di sé e del mondo» (p. 20). De-siderio è, in forza di ciò, nel lessico di Bloch, Sehnsucht, ben distinto dal Wunsch/Wunschbild, che invece coincide con l’immagine, la rappresentazione coscia di questo desiderio, cioè del desiderio di questa cosa. Sehn-sucht, che guardando ai due termini tedeschi di cui si compone sarebbe qualcosa come un “anelare che cerca”, ovvero slancio sub-coscienziale e atetico alla ricerca di un quid reale onde poter pervenire all’Io senziente, non possiede quindi per definizione alcuna realtà[1]; vale a dire: è l’essere originario nel suo intimo, irriducibilmente primo poiché ab-soluto. Esso «raffigura, dipinge in anticipo nell’immaginazione (vormalt) ciò che l’uomo anela, non nasce dalle rappresentazioni, ma sorge solamente con esse e le tramuta in immagini di desiderio (Wunschbilder)» (p. 33).

Ma donde trarrebbe una forza così irreprimibile questo Sehnsucht? Per quale ragione, detto altrimenti, il bisogno di proiettarsi a distanza dal proprio essere in ciò che è altro nello spazio e nel tempo è così profondamente connaturato all’umano? La risposta che a queste domande la stragrande maggioranza dei pensatori ha dato nella storia della filosofia rintraccia, di certo senza torto, la ragione del de-siderio nella finitudine anzitutto materica che attraversa l’uomo in quanto ente corporeo e suscettibile, come tutti gli altri corpi, del divenire dell’essere. Ebbene, quantunque tale spiegazione dia senz’altro l’impressione di essere attendibile, Bloch – e con lui la Dibitonto – reputa nondimeno opportuno domandarsi: se l’esperienza del desiderio (Wunsch) è innegabilmente permeata dalla temporalità come modo di vivere la finitudine che ci intesse, fino a che punto l’essenza di questo vissuto è anch’essa da reputarsi radicata nella mancanza e nell’esser lacunoso del soggetto[2]? La deduzione a cui il filosofo giunge è di straordinario interesse teoretico:

Che la mancanza venga dapprima percepita come mancanza esterna di luce può significare, in realtà, che il desiderio primario del soggetto, lo stimolo, nasca da una pienezza immediata, che tende a qualcosa in più, ma fuori di sé, poiché in sé già piena, anche se non ancora compiuta, né tantomeno perfetta. […] In questa prospettiva diventa ancor più conseguente la dimostrazione, già avviata dalla riflessione blochiana, dell’irriducibilità del desiderio a una struttura meramente compensatrice: esso non nasce solo ed esclusivamente da una mancanza, ma anche, e primariamente in quanto possibilità, da un’eccedenza (Uberschuss) del soggetto, perché proviene dalla sua pienezza (pp. 30-31).

L’essere im-mediatamente “pieno” desidera far esperienza del mondo in cui alberga e che in certo senso è; sicché, uscendo fuori da sé nell’incontro con gli altri enti tanto cosali quanto viventi, esso si riscopre come manchevole e per ciò anelante a una compiutezza in qualche modo più “perfetta” di quella originaria. Il che, accolto nella radicale astrazione che qui si fa da ogni evento empirico e compreso come il susseguirsi di due momenti non già cronologici ma puramente logici, non prende poi di molto le distanze dalla sartriana nèantisation dell’in-sé che si fa per-sé, cioè coscienza tetica. Il de-siderio, ontologicamente connotato, assurge in un’ottica teorica di questo tipo a comprensione del sé e del mondo; del sé in quanto mondo. In questo senso, ovvero nella misura in cui coincide con l’Essere, il Sehnsucht è, a rigore, inesprimibile salvo ricorrere al suo determinarsi “onticamente” come Wunschbild (ma in tal caso è già divenuto altro da quel che effettivamente è, da cui l’aporia cui approda ogni tentativo di discuterne); e ancora, l’indicibilità che lo denota non è da intendersi sotto un profilo meramente verbale al modo d’una qualche difficoltà ad articolarlo analiticamente, bensì – ed è qui la vera difficoltà del filosofare sul de-siderio – dal punto di vista di una sua comprensione intuitiva: il de-siderio è, come ha acutamente fatto notare Jacques Lacan, inconcettualizzabile.

Deve tutto questo dissuadere dal tentare di indagare il de-siderio come tale o indurci al lassismo filosofico nel quale uno Stendhal che ne aveva ben compresa l’oscurità si è rifugiato? Per Daria Dibitonto, non v’è dubbio che la risposta debba esser negativa. Occorre, segnala la studiosa, piuttosto ripensare l’interrogare metafisico non più come sola indagine “sull’essere in quanto essere”, bensì come uno sporgersi «a pensare l’essere che non è ancora quale fondamento di ciò che è o che può essere» (p. 24). È solo scorgendo nella frizione dialettica, nella tensione, nel de-siderio il Grund, il principio materico e spirituale di “tutto quanto è” che la filosofia teoretica può aprirsi a un nuovo pensiero dell’essere che scaturisca dalla mediazione e dalla reciprocità e che tuttavia le ecceda, non potendo in alcun modo a esse venir ridotto.

Il desiderio è dunque differenza, ed è differenza “ontologica” non perché trascendente, o perché discriminante tra disponibilità degli enti e imperscrutabilità dell’essere, ma perché, più originariamente, è differenza propria dell’essere, costitutiva del suo impulso a uscire da sé, a trasformarsi, a divenire, a essere ulteriormente, oltre se stesso e oltre ogni propria singola formazione, sempre qualitativamente differente da tutte le altre: è differenza dell’essere da se stesso, che infatti non viene definito, da Bloch, semplicemente “essere”, ma “non-ancora-essere”, “essere come utopia” (p. 75).

La filosofia che si arrischia a pensare questo dif-ferire dell’essere da sé stesso è «sguardo vivificante e salvifico» che si slancia sulla realtà. È lo sforzo estremo di dire ciò che solo la musica, la pittura e la letteratura riescono confusamente a veicolare nel Dasein che le esperisce, le «intrinseche potenzialità utopiche» che in esse preappaiono (vor-scheinen, scrive Bloch). Suo compito è guardare alla rivelazione mistico-metafisica in esse latente non già ai fini di un’estetica del bello fine a sé stesso, tantomeno di un sublime burkianamente inteso capace di svelare la grandezza e a un tempo l’insignificanza che intriderebbero l’umano, bensì, di nuovo, guardarvi con il coraggio del domandare metafisico sull’essere. Tale filosofia, d’altro canto, è anche l’ardimento di far ritorno a

Quel Platone che Bloch, pur nell’accusa di idealismo reazionario, definisce “pensatore del desiderio come non ce n’erano ancora mai stati”, ma che Nietzsche vorrebbe “rosso di vergogna” e che Heidegger indica come primo responsabile dell’oblio dell’essere ne La dottrina platonica della verità. Ciò che semmai la filosofia ha obliato è, invece, il desiderio che abita il pensiero, sia nella sua dimensione erotica, sia nella sua dimensione rivoluzionaria. Il desiderio ha trovato posto nella storia del pensiero quasi esclusivamente come desiderio spirituale, o spiritualizzato. Nemmeno la ricerca freudiana sulle pulsioni riconsegna il desiderio alla filosofia, sancendo piuttosto una spaccatura tra psicologia e filosofia, di cui il desiderio è limite e confine (pp. 136-137).

L’insufficienza di una ingiunzione banalmente psicologista che riduca il de-siderio a generico Trieb – sebbene la parola tedesca adottata da Freud ne restituisca abbastanza profondamente il senso – fa tutt’uno, per la Dibitonto, con la necessità di ravvicinarsi a quella metafisica del non ancora, del fermento che il fondatore dell’Accademia ha meglio compendiato nel Teeteto tanto quanto nel Fedro e, da ultimo, nel Simposio. Eρως, che come noto non è traducibile a rigore né semplicemente con “amore” né con “desiderio” e che da solo meglio dilucida il nucleo fondativo di quel Sehnsucht di cui Bloch parla, è – ci insegna difatti Platone contro ogni sentimentalismo moderno –

Povero sempre, ed è tutt’altro che bello e delicato, come ritengono i più. Invece, è duro e ispido, scalzo e senza casa, si sdraia sempre per terra senza coperte, e dorme all’aperto davanti alle porte o in mezzo alla strada, e, perché ha la natura della madre, è sempre accompagnato con povertà. Per ciò che riceve dal padre, invece, egli è insidiatore dei belli e dei buoni, è coraggioso, audace, impetuoso, straordinario cacciatore, intento sempre a tramare intrighi, appassionato di saggezza, pieno di risorse, filosofo per tutta la vita, straordinario incantatore, preparatore di filtri, sofista. […] E ciò che si procura gli sfugge sempre di mano, sicché Eros non è mai né povero di risorse, né ricco[3].

Quello teorizzato dal filosofo greco non è il de-siderare infitto di sola mancanza proposto dai Latini: l’Eros platonico, nello sgorgare da quella “sovrabbondanza” d’essere di cui sopra si parlava, «non è mai né povero di risorse», ché è piuttosto in e da un “di più” ontologico soltanto che esso può nascere, «né ricco», poiché prometeicamente sempre proteso in direzione di una compiutezza altra da quella attuale; compiutezza che è far suo il mondo esperendolo. Il desiderio di sapere, che nella meditazione aristotelica assumerà forma diversa pur conservando il senso più autentico dell’Eros tematizzato da Platone, si ricongiunge pertanto – nel suo uscire di sé per far conoscenza del mondo – con niente di più che il “pieno” da cui origina, ovvero il Sé stesso; un Sé bensì reale, e non mera coscienza idealisticamente riconciliantesi con il proprio Io dopo essersi fatta coscienza del mondo, che è l’individuo (questo individuo) radicato nell’«inesauribile grembo partoriente» della materia, nella plenitudine e nell’incompletezza che la attraversano, nell’autarchia e nell’inquietudine che la segnano, nell’identità e nella differenza pur antinomica che essa – la materia – semplicemente è.

Al netto di queste considerazioni, Daria Dibitonto può asserire che l’impulso all’autoconservazione, a ogni essere connaturato, è dunque «la forma più generale, ma anche la più materiale, del desiderio», ovvero il far ritorno del de-siderio nella pienezza donde fluisce, nell’Essere che è in sé, esulo da ogni successiva relazione con l’ambiente esteriore[4]: allora, il seme del desiderio, che a ragione Spinoza ci dice racchiudere l’«essenza dell’uomo», forse davvero non è altro che il «suum esse conservare» cui questi allude nella Terza Parte della sua Ethica come a sforzo/impulso (conatus) e parimenti termine sommamente buono di ogni agire umano.

Considerazioni di una tal portata teoretica, unite alla scrupolosa esegesi della parola blochiana e alla ricognizione storico-filosofica generale che il saggio propone, fanno di Luce, oscurità e colore del desiderio una vera e propria, originalissima, fenomenologia del desiderio; un testo senza dubbio alcuno cruciale per affacciarsi a una inedita metafisica del non ancora che ritrovi, nell’ascolto del dire gnostico e dell’antico pensiero greco, il coraggio di spingersi a concepire l’oscura, tanto straziante quanto meravigliosa trama che innerva il de-siderare dell’umano, della materia, del mondo. Il mondo, l’Essere, al di là di ogni proposta insulsamente antropocentrica, riduzionista o psicologista che voglia farne un solo factum dell’animale uomo, difatti, è precipuamente questo: de-siderio.

NOTE

[1] Così la penna perspicace di Fichte poteva scrivere: «L’oggetto del sentimento di delimitazione è qualcosa di reale, l’oggetto dell’anelare non ha realtà ma deve averla conformemente all’anelare, perché quest’ultimo è in cerca di realtà» (J.G. Fichte, Fondamento dell’intera dottrina della scienza, a cura di G. Boffi, Bompiani, Milano 2003, p. 605).

[2] Fa osservare, in effetti, la stessa autrice in un’altra sede: «È interessante notare che la mancanza, in questa prospettiva teorica, non nasce primariamente da una negatività dell’umano (tradizionalmente, per esempio, dalla debolezza della carne), ma dal suo essere originariamente aperto alla relazione intenzionale con il mondo, originariamente direzionato verso l’esterno»; D. Dibitonto, Dall’intenzionalità pulsionale alla relazione con l’infinito: fenomenologia e metafisica del desiderio, in «Teoria», XXXV, vol. 1/2015, p. 132. Che la relazionalità caratteristica dell’ente umano implichi un suo esser-manchevole è altresì possibile, ma non inferenzialmente deducibile quale verità perentoria. In tal senso, fare del desiderio una mera manifestazione dell’incompiutezza umana vuol dire probabilmente trasformare una realtà di fatto – che l’apertura al diverso si manifesti non di rado come uno sperimentare la nostra incompiutezza e l’impossibilità di autopossederci – in una realtà di diritto – che l’apertura al diverso, ove il desiderio prende forma, comporti ipso facto una qualche negatività nell’ente che noi siamo.

[3] Platone, Simposio, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2000, p. 181.

[4] La massima astrazione che il discorrere sul de-siderio richiede induce a dover elargire non poche concessioni dal punto di vista lessicale: dire, infatti, dell’essere che esso possa in qualche modo trovarsi “in sé” prima di una qualunque relazione col diverso, con l’esteriorità, sarebbe un grave misconoscimento del significato stesso del de-siderio – cioè appunto dell’essere – che è, pur non essendo a essa semplicisticamente riducibile, relazione. In altre parole: l’Essere non può in alcun modo essere “cronologicamente” prima, per farsi poi. Affermazioni di questo tipo vanno dunque inquadrate in una chiave squisitamente analitica, affatto impossibile da rintracciare nel concreto divenire processuale dell’essere (oltre che, in questo caso, del tutto erronea).

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