Enrico Palma (1995) è dottore di ricerca in Scienze dell’Interpretazione e collaboratore della cattedra di Filosofia teoretica del Disum di Catania. Ha pubblicato saggi, articoli e recensioni per numerose riviste nazionali e internazionali. Le sue aree di ricerca sono principalmente la metafisica, le intersezioni tra filosofia e letteratura in chiave ermeneutica e l’ontologia della scrittura letteraria. Nel 2022 ha partecipato alla collana Greco. Lingua, storia e cultura di una grande civiltà del "Corriere della Sera" con la cura del volume ψυχή. L’anima. Nel 2024 ha pubblicato De scriptura. Dolore e salvezza in Proust (Mimesis, Milano-Udine). Nel 2024 ha conseguito l’Abilitazione Scientifica Nazionale alle funzioni di Professore di II fascia per il S.S.D. di Filosofia Teoretica (11/C1).
Sullo scadimento della scuola pubblica italiana, sul livello di istruzione sempre più basso, su quanto ne sanno i più giovani che è sempre meno rispetto al passato – cose che si condensano tutte nell’impoverimento linguistico e culturale – non c’è bisogno di insistere ulteriormente, poiché, tristemente, sono fatti noti e purtroppo accertati. Ciò che invece può (o potrebbe) sorprendere meno è la presenza di pericolose simpatie politiche e nostalgiche di un passato storico ben preciso proprio tra i banchi di scuola, i quali devono (o dovrebbero) costituire naturali barricate contro simili distorsioni (tali, quantomeno, dal punto di vista costituzionale). Riporto quindi, da docente nei licei di filosofia e storia, una recentissima esperienza didattica.
A partire da sollecitazioni sorte più o meno casualmente – la visione del serial-tv M. Il figlio del secolo e alcuni fatti di cronaca – è sorto da parte di alcuni studenti il desiderio di confrontarsi con il loro docente circa sentimenti di simpatia, a volte sconfinanti nella condivisione profonda, verso il fascismo storico, serpeggianti appunto nelle aule scolastiche in modo più che sensibile. Un desiderio che, il giorno successivo, si è tramutato in un’ora di confronto serio, denso, partecipato e attentissimo, avente come obiettivo l’individuazione, l’analisi e il commento di quelle che potrebbero essere le ragioni di questo fenomeno, e cioè l’approvazione da parte di alcuni (forse molti) studenti dell’ideologia fascista del Ventennio. Saluti romani, abbigliamento scuro, musiche della propaganda fascista nelle playlist di Spotify, aggressività, ferocia razziale, oppressione dei più deboli, persecuzione dei disabili e degli omosessuali con il fine della totale esclusione, sono alcuni dei comportamenti rilevati con sospetto.
Riassumendo le osservazioni degli studenti, si è giunti a questi punti: correlazione di fascismo e ignoranza, quest’ultima distribuita su più livelli (dal basso rendimento scolastico alla povertà intellettuale ed emotiva); insofferenza verso un Paese-Italia smarrito e impotente nel grande mare intercontinentale; perdita dell’identità italiana e rivendicazione dell’orgoglio nazionale; intolleranza verso l’invasione (presunta o percepita come tale) da parte dei migranti di origine africana o est-europea, intesa come un serio rischio per la sopraffazione della casa comune; appagamento di profonde insoddisfazioni e frustrazioni personali di carattere fisico, sentimentale e sociale da parte di alcuni «deviati».
Consapevolmente o meno, gli studenti hanno enucleato e discusso alcuni dei principi ideologici sostenuti e promossi dall’attuale destra transnazionale, dagli Stati Uniti neo-trumpiani ai partiti al governo nella maggior parte dei Paesi europei. In ogni caso, pur consentendo la legittimità di queste posizioni all’interno del dibattito politico degli stati democratici, nella discussione condotta dagli studenti c’era sempre qualcosa che non tornava, un rotore cigolante, come se ci fosse una notevole confusione concettuale tra ciò che è il fascismo ideologico considerato nella sua effettiva manifestazione storica e i proclami dell’attuale destra.
Che bisogno c’è, ci siamo infine chiesti, di essere allora fascisti, di strizzare l’occhio a un’esperienza che in quanto cittadini italiani dell’attuale Repubblica, e più in generale europei post-Seconda guerra mondiale, dovremmo tutti aborrire con forza? Perché, questa è sembrata la risposta più plausibile, non è solo ai concetti che ci si riferisce, bensì alla reale esperienza storica. I nostalgici lo sono del fascismo vero e proprio, quello mussoliniano. La domanda successiva non poteva, quindi, che essere: che cos’è il fascismo? Una domanda semplice, anche fin troppo canonica e apparentemente innocua, a cui, tuttavia, la classe non è riuscita a rispondere. Segno, forse, che non c’era una reale comprensione del tema; che, adesso come allora, questo Proteo politico sfugge ancora a una definizione o, peggio, che coloro che vi aderiscono anche convintamente non lo conoscono, abbagliati da un istinto irrazionale o da un confuso bisogno primitivo, persino ancestrale.
Per questo confronto, ho portato in classe alcuni volumi nel tentativo di rispondere alla domanda in oggetto, dei classici, ormai, della storiografia sul tema: la monumentale opera in vari tomi di Renzo De Felice, i lavori di teologia politica di memoria schmittiana del suo allievo Emilio Gentile, gli studi sull’apparato di Salvatore Lupo. Ho preferito, però, cercare una risposta concettuale, offrendo agli studenti una possibile chiave interpretativa a partire da alcune pagine celebri e adamantine del Grande inquisitore di Dostoevskij.
Se c’è una formula che riesca a ben riassumere il senso di questo testo, che non smette ancora di sbalordire e di inquietare, credo che possa essere, parafrasando Kundera, l’insostenibile leggerezza della libertà. Ho quindi letto, commentato e spiegato soprattutto queste parole:
Non vi è affanno più tormentoso e continuo per l’uomo, rimasto libero, che il ricercare al più presto qualcuno da venerare. Ma l’uomo ricerca qualcosa che sia già inconfutabile, tanto inconfutabile che tutti gli esseri acconsentano unanimemente e universalmente a venerare. Perché la preoccupazione di questi miseri esseri [cioè gli umani] non è soltanto quella di trovare qualcosa che possa essere venerata dall’uno o dall’altro, bensì di trovare qualcosa in cui tutti credano e che tutti venerino, ma tutti insieme, senza eccezione. E proprio questo bisogno di comunione nella venerazione è il più grande tormento di ogni singolo individuo e dell’umanità intera fin dall’inizio dei secoli. […] E così sarà fino alla fine del mondo, anche quando gli dei scompariranno dalla Terra: comunque si getteranno davanti agli idoli![1].
Dostoevskij si riferiva certamente alla Chiesa di Roma, e forse a tutte le Chiese. Ma sarebbe veramente riduttivo, per non dire delittuoso, non attribuire un valore ulteriore, addirittura profetico, a queste riflessioni. Mi sono limitato a parafrasare il testo dicendo che, rispondendo alla domanda sul suo significato, il fascismo vuol dire essere schiavi, essere, con Dostoevskij, dei miseri schiavi asserviti al culto e alla venerazione di un idolo, rinunciando, di fatto, alla libertà, consegnando colpevolmente la propria coscienza a una autorità suadentissima ma in verità vuota e concettualmente squilibrata: la forma di schiavitù peggiore di tutte, in cui si scompare dissolvendosi «in un unico formicaio comune e concorde»[2]. Ho chiesto ai miei studenti se volessero essere degli schiavi, di questo come di altri fascismi. Mi è parso di cogliere nei loro sguardi la fierezza e l’orgoglio che serve la libertà.
[1] F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov (Brat’ja Karamàzovy, 1879), trad. di N. Cicognini e P. Cotta, Mondadori, Milano 1994, p. 354.
[2] Ivi, p. 359.