Daniele Trabucco è professore associato di Diritto costituzionale italiano e comparato e Dottrina dello Stato presso la Libera Accademia degli Studi di Bellinzona (Svizzera)/UNIB – Centro Studi Superiore INDEF (Istituto di Neuroscienze Dinamiche «Erich Fromm»). Dottore di Ricerca in Istituzioni di Diritto Pubblico.

Recensione a
A. Morosin, #Democrazia. Figlia della libertà costituente. Strumento della libertà costituita
Cleup, Padova 2019, pp. 197, €15,00.

Alessio Morosin, nato a Noale (Città metropolitana di Venezia) e laureato nel 1981 in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Padova, non solo è tra i più valenti e seri avvocati che ho avuto l’onore di conoscere personalmente e con il quale, in diverse occasioni, mi sono confrontato, ma è pure un eccellente studioso sia di storia veneta, sia dei fondamenti filosofici di concetti cardine del diritto pubblico e del diritto internazionale, in modo particolare quelli di democrazia e di autodeterminazione dei popoli.

Nel libro recensito, uscito a dicembre 2019 per i tipi della Cleup, Morosin da un lato si interroga intorno all’idea di democrazia e del suo funzionamento, chiedendosi qual è l’essenza del «pensiero» democratico (p. 5), dall’altro fa trasparire la sua «delusione» (p. 5) per l’attenzione posta, soprattutto dalla scienza pubblicistica di matrice positivistica, sulla sua dimensione quantitativa piuttosto che qualitativa.

Nello specifico l’opera si sviluppa brillantemente attorno alla dialettica democrazia-valore e democrazia-strumento. Se è un valore (quale?), essa costituisce un assoluto non democratico che non può essere messo in discussione pena la sua fine. In questo modo, quindi, la democrazia cela la sua reale natura antidemocratica. Se, invece, è uno strumento di governo, una «procedura» secondo la terminologia habermasiana, un metodo, scrive Schumpeter, per pervenire a decisioni politiche in base al quale singoli individui ottengono il potere di decidere sul presupposto di un voto popolare, allora essa o può garantire di essere qualsiasi cosa si desidera in ragione di quanto si riscontra sul piano del consenso degli elettori (è il relativismo come mezzo per il nichilismo), oppure determina la validità di una scelta in base all’indirizzo politico di chi detiene il potere in un dato momento storico, del quale non ci si interroga circa la sua giustezza (per la democrazia, infatti, non può esserci giusto e ingiusto) che può addirittura pervenire a sopprimere alcuni diritti costituzionali (culto, riunione) in ragione di una proclamata (senza contraddittorio) emergenza sanitaria ai sensi dell’art. 24 del d.lgs. n. 1/2018 (Codice della Protezione civile) come del resto stiamo assistendo in questi mesi di emergenza sanitaria causata dalla diffusione del Covid-19.

La democrazia contemporanea, dunque, forma quello che Ortega y Gasset definisce «l’uomo massa», l’individuo in cui prevale l’istinto di autodeterminazione assoluta (ad esempio la non punibilità (per ora) a certe condizioni del suicidio assistito) e l’indifferenza per la Verità. La democrazia, infatti, è afilosofica, o meglio è filosofica nella misura in cui ha spostato la visione nichilistica nietzschiana in cui l’oltre uomo, l’übermensch, si realizza in una divinizzazione della tecnica moderna (pensiamo al noto comitato tecnico-scientifico o alle varie task force) che fissa il destino di un popolo e anestetizza le menti.

Il saggio di Morosin sprona a superare questa visione dicotomica per scoprire, con il metodo maieutico che pervade tutto il testo, che la democrazia non è figlia di una qualunque libertà costituente, di un potere assoluto senza limiti (di bariliana memoria), ma di un potere «ordinatore» che non può mai prescindere dall’ordine naturale dell’essere il quale è stato tradotto (ma mai stravolto nei suoi contenuti essenziali) ed attuato nelle radici identitarie di una comunità nazionale che può ben essere senza Stato e che l’autore individua nella storia gloriosa del popolo veneto da lui ritenuto «aggregato» allo Stato italiano, come la Comunità autonoma di Catalogna lo è al Regno di Spagna. Morosin stimola il costituzionalista, il filosofo del diritto, l’antropologo a ragionare su quelle che il noto stratega geopolitico indiano, Parag Khanna, definisce «la rinascita delle città-Stato» quali strumenti per superare la tecnocrazia delle contemporanee democrazie costruttivistiche sempre più in crisi tanto in termini di rappresentanza politica, quanto di governabilità in ragione di «limitazioni» di sovranità a favore di organismi sovranazionali come l’Unione Europea e di una trasformazione silente dello Stato moderno sempre meno entità esogena al mercato, ma pienamente interconnesso nel sistema di interdipendenza degli agenti economici.

L’autore ha il grande merito di aprire nuove prospettive di ricerca volte non solo a ripensare il dogma democratico e le sue diverse declinazioni, ma anche a rivedere e reimpostare il rapporto Stato-Nazione di derivazione illuministica-giacobina.

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