Matteo Pio Impagnatiello (1977), dopo aver svolto il servizio di leva nell'Arma dei Carabinieri, si è laureato in Giurisprudenza e ha conseguito il Diploma presso la Scuola di specializzazione per le professioni legali. Membro del Comitato scientifico di Unidolomiti, collabora con vari quotidiani e periodici. Da sempre impegnato nel mondo del volontariato e culturale.

Recensione a: F. Morini, D’Annunzio, la massoneria e le barricate di Parma, pref. di F. Cardini, Postfazione di M.P. Impagnatiello, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2023, pp. 128, € 18,00.

Curiosamente nessuno storico pare si sia posto una domanda piuttosto banale sul fatto che, a poco più di un anno di distanza dalle previste elezioni politiche nella primavera del 1924 – in cui il Partito Nazionale Fascista avrebbe di certo trionfato con un netto rafforzamento della sua ancora contenuta rappresentanza parlamentare eletta nel 1921 e ambendo comunque a proporzioni determinanti – Mussolini mise in forse un sicuro avvenire parlamentare, azzardando l’incertezza dell’esito  di un moto insurrezionale.

Atto che avrebbe avuto una sua ratio qualora l’insurrezione avesse assunto precisi caratteri rivoluzionari, come ad esempio la defenestrazione dei Savoia a favore degli Aosta (questi ultimi più favorevoli al fascismo), giacché l’opzione repubblicana era oggettivamente prematura e quindi destinata al sicuro fallimento. Tutto ciò per poi rientrare pienamente nell’alveo costituzionale con un tipico governo di coalizione appoggiato da nazionalisti, cattolici e liberali. Valeva tutto ciò la pena di una insurrezione? Apparentemente no. A meno che non si prenda in considerazione la variabile rappresentata da un d’Annunzio anch’esso in corsa per la presa personale del potere.

Il poco conosciuto intreccio storico è stato recentemente messo in luce nel ben dettagliato saggio a firma di Franco Morini, nel quale si documenta la gara ingaggiata fra il Vate e il futuro Duce, tesa all’egemonia politica e quindi rappresentativa della gran massa degli ex combattenti, frazionatasi dopo l’impresa fiumana tra i seguaci di Mussolini e quelli del Comandante, spesso in aspra e anche sanguinosa lotta fra loro.

Alceste de Ambris, ex capo di gabinetto di D’Annunzio a Fiume ed estensore della Carta del Carnaro – nella sua figura si condensavano gli ambienti sindacali e massonici – aveva convinto il Poeta di essere l’unica personalità italiana in grado di pacificare gli ex combattenti, dato il suo ascendente negli opposti campi, dagli squadristi agli arditi del popolo. Ipotesi peraltro non sgradita a potentati economici e politici, convinti di poter più facilmente avere influenza su D’Annunzio che non su Mussolini. Stesse interessate considerazioni da parte dei dirigenti delle Associazioni ex combattenti (ANC) e Mutilati e invalidi di guerra (AMIG) con centinaia di migliaia di iscritti potenzialmente strumentalizzabili a favore del Vate. È così che, con il supporto delle predette organizzazioni combattentistiche, D’Annunzio si predispone ad attuare un pronunciamento dittatoriale, da effettuarsi a Roma nel corso di una grande adunata di ex combattenti. Data scelta dai riferimenti massonici: il 20 settembre 1922. Luogo scelto: il monumento al Milite Ignoto, da cui avrebbe parlato D’Annunzio ai reduci assiepati nell’adiacente piazza Venezia.

Nell’occasione il Comandante avrebbe dovuto evocare lo spirito del Milite ignoto, il quale gli avrebbe fantasiosamente risposto che compito del Vate doveva essere quello di pacificatore super partes di tutti i suoi commilitoni, imponendosi alla nazione come guida dittatoriale “a tempo determinato”. Non diversamente da com’era in uso nella Roma antica in particolari momenti di crisi nazionale. Non v’è dubbio alcuno che tale lirico messaggio avrebbe fatto breccia sulla folla dei presenti, che non avrebbe abbandonato la  capitale finché D’Annunzio non avesse ricevuto i pieni poteri, con la destituzione del Parlamento a favore di un Governo di salute nazionale. Solo dopo aver raggiunto il traguardo della pacificazione, si sarebbero indette nuove elezioni.

Progetto che sembrò dover svanire quando la sera del 13 agosto D’Annunzio precipitò dall’altezza di sette metri da una finestra della sua villa di Cargnacco – non ancora Vittoriale – ferendosi gravemente al capo con fuoriuscita, pare, di materia grigia. La dinamica dell’incidente restò un mistero per molti anni e nel dopoguerra si almanaccò da più parti che si fosse trattato di un attentato fascista per togliere di mezzo un pericoloso concorrente all’ascesa politica di Mussolini. Solo alcuni decenni orsono si è infatti appurato che il Poeta aveva perso l’equilibrio, seduto sul davanzale della finestra protetta da un basso parapetto, nel corso di una accesa discussione per motivi di gelosia con la pianista, e sua amante, Luisa Baccara.

D’Annunzio riuscì comunque a riprendersi abbastanza bene, tanto da non dover accantonare il progettato pronunciamento, limitandosi a spostarne la data al 4 novembre, ricorrenza della vittoria in guerra. Come però si sa, Mussolini lo precedette di pochi giorni con la sua marcia su Roma. Naturalmente la prevista concentrazione a Roma dei reduci per la manifestazione dannunziana non si tenne e sarebbe quindi arduo non tener conto del nesso che intercorre fra le due distinte iniziative. Questi avvenimenti rappresentano la cornice storica di cui tratta il saggio in questione, che analizza dettagliatamente tutte le varie forze in gioco,  non di rado con obliqui obiettivi in uno scenario da teatro degli inganni dove chi è sconfitto passa ancora oggi per vincitore e viceversa. Ci riferiamo in particolare al mito delle barricate parmigiane dell’agosto 1922 etichettate come socialcomuniste, quando in realtà si trattava di barricate dannunziane  innalzate  con il placet prefettizio e tutelate dall’esercito. Lo stesso Balbo  intervenne a Parma per evitare scontri con i dannunziani (Camera del lavoro sindacalista di De Ambris e Arditi del popolo) e con l’esercito posto a protezione dei barricadieri. Del tutto fuori dal contesto i comunisti, all’epoca praticamente insignificanti a Parma, tanto che, sciolta la Federazione provinciale del PCd’I nel luglio precedente, le poche decine d’iscritti fra Parma e provincia erano state aggregate alla confinante Federazione di Reggio Emilia.

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