Gianpaolo Ornaghi è dottorando presso l’Università degli Studi Carlo Bo di Urbino e responsabile per la didattica dell’Iscop – Istituto di Storia Contemporanea della Provincia di Pesaro e Urbino.
Recensione a
E. Pivoni, L’epurazione dei fascisti in Italia nel secondo dopoguerra
parallelo45edizioni, Piacenza 2018, pp. 215, €13,00.
Il volume di Edoardo Pivoni costituisce un interessante contributo alla riflessione sulle continuità che vennero permesse tra lo sconfitto regime fascista e la vittoriosa Italia repubblicana, al termine di quella che Claudio Pavone ha, a giudizio di chi scrive, giustamente definito una «guerra civile». Continuità di sostanza, rappresentata in ultima analisi dall’impunità e dalla permanenza nei quadri del nuovo stato democratico di personalità importanti del passato regime e di elementi ben più che collusi con le sue istituzioni e con le sue strutture; continuità anche di forma, laddove un vero mutamento di paradigma non avvenne e nel Paese, sconfitto militarmente il fascismo, ebbe la meglio la componente «conservatrice, statica e permeata di qualunquismo» (p. 111); quell’Italia che muoveva l’amarezza di Ferruccio Parri quando considerava «la necessità di una rivoluzione in un paese controrivoluzionario».
Quello che preme sottolineare del testo di Pivoni è l’efficacia quale potenziale strumento di supporto all’insegnamento della storia e all’attività didattica. L’A., infatti, restituisce la complessità di un arco temporale esteso, che vede la progressiva sconfitta del fronte antifascista e delle istanze da questo rappresentato e il consolidarsi di un atteggiamento più moderato e conservatore.
Al centro della critica anche l’interpretazione parentetica del fascismo, di cui campione fu Benedetto Croce e che nella scuola italiana gode ancora di una certa fortuna, rispetto alla quale l’a. propone una prospettiva che sappia individuare gli elementi di continuità nella storia nazionale e spiegare perché a questi fu permesso di sopravvivere.
Negli ultimi decenni, conclusa la lunga stagione caratterizzata dall’accettazione del paradigma antifascista da parte di (quasi) tutte le forze politiche dell’arco costituzionale, le pratiche discorsive sul regime fascista, sul suo significato storicoe sulla sua condanna morale hanno conosciuto una nuova stagione; una pubblicistica divulgativa non scientifica ma di grande fortuna mediatica ha contribuito allo sdoganamento di tesi revisionistiche, alla riabilitazione di criminali di guerra e gerarchi fascisti e, parallelamente, alla criminalizzazione dell’intera esperienza resistenziale, attraverso l’assunzione a realtà storica di vulgate prodotte e circolate per decenni in ambienti neofascisti e la decontestualizzazione delle dinamiche che si verificarono in Italia negli anni 1943-45, in uno scontro fratricida al termine di un ventennio di violenze, vessazioni e atrocità.
L’autore opera in apertura una utile distinzione tra defascistizzazione e epurazione (p. 19): ad oggi possiamo dire che la tendenza mistificatoria a ingigantire la portata della seconda ha avuto per effetto la minimizzazione della mancata realizzazione della prima. La freddezza dei rappresentanti governativi del Regno del Sud nei confronti degli esponenti del CLNAI e dell’antifascismo in armi (p. 37) descrive efficacemente la distanza tra le nuove classi dirigenti di un Paese rimasto nelle mani di clientelismi e potentati locali e il paese che dell’antifascismo faceva una battaglia sociale, oltre che politica. Sarà la sconfitta di quel “vento del Nord”, inteso come aria di rinnovamento dovuta non alla caduta del regime ma alla ribellione antifascista (p. 45) che avrebbe voluto inchiodare l’alta borghesia e il grande capitale alle sue responsabilità e alle sue collusioni col regime.
Il fascismo non fu un «corpo estraneo» alieno all’indole nazionale, come dimostra la difficoltà degli alleati a distinguere le leggi fasciste da quelle di epoca liberale e cancellarle (pp. 21-23); il distinguo tra Stato e regime (in nome di quale dei due erano stati commessi determinati crimini?) venne evocato in molti casi per eludere i processi epurativi.
Il Ministero dell’Africa Italiana sopravvisse alla perdita delle colonie in nome della «continuità dello Stato» e il suo gruppo dirigente si difese in nome di questa continuità e della pretesa neutralità dell’amministrazione coloniale. Un elemento di grande interesse a fini didattici, quando si consideri che il mancato processo di decolonizzazione conflittuale che hanno conosciuto altri paesi, spesso drammatico, ha evitato all’Italia la presa di coscienza della natura intrinsecamente violenta del rapporto coloniale di cui era co-protagonista.
L’attenzione riservata dall’Autore alla dimensione internazionale risulta di fondamentale importanza per una storia insegnata che si faccia sempre più storia mondiale e contribuisce a illuminare questioni complesse collegate al tema in esame, anch’esse compromesse in anni recenti da una divulgazione antiscientifica e faziosa. Il caso dei criminali di guerra e dei responsabili delle repressioni, delle esecuzioni sommarie e degli eccidi in Istria e nel Carnaro e nei territori jugoslavi occupati, come Temistocle Testa o Alessandro Pirzio Biroli, la cui epurazione fu sconsigliata in considerazione delle «ripercussioni sfavorevoli su tutto il delicato problema dei criminali di guerra italiani secondo gli jugoslavi» (p. 71), o dei più celebri Rodolfo Graziani, Mario Roatta, Junio Valerio Borghese (pp. 87 e sgg.), offre spunti interessanti circa i rapporti diplomatici italiani nel dopoguerra e contribuisce a fare luce sul gioco di reciproche coperture che ha lasciato impuniti gli eccidi avvenuti in patria come i crimini di guerra di cui fu l’Italia a macchiarsi.
Il destino degli autori del «Manifesto degli scienziati razzisti», documento di partenza per le leggi razziali, anch’essi scampati all’epurazione e lasciati a operare nel dopoguerra nei loro rispettivi ambiti scientifici (p. 94), aiuta a ragionare sulle specificità del razzismo italiano e a considerare le persistenze e le continuità di un elemento dal quale il Paese non si è certamente emendato con la caduta del regime.
Naturalmente, nell’attenta e puntuale ricostruzione che l’Autore fa degli interventi legislativi in materia di epurazione a partire dall’Armistizio in avanti, grande protagonista diviene l’«amnistia Togliatti», della quale vengono spiegate le ragioni, certamente, ma soprattutto descritti gli «effetti catastrofici» – per dirla con Antonio Gambino – anche rispetto alla compattezza del fronte antifascista, che ne uscì profondamente diviso (p. 125).
Anche in questo caso, la prospettiva didattica ci invita a cogliere le opportunità relative alla questione del diritto, in una fase storica in cui sarebbero stati possibili rivolgimenti di paradigma in luogo di semplici mutamenti normativi: il dicastero Togliatti si distinse, in questo senso, per un rigore tecnico-amministrativo ispirato al principio della non ingerenza rispetto alla magistratura, quando avrebbe potuto – ed era la direzione auspicata dalle altre forze antifasciste – orientarsi secondo prospettive più marcatamente politiche.
Infine, supportati da una vasta documentazione e da un rigoroso lavoro di ricerca bibliografica, risultano utili i numeri forniti dall’a. per cercare di comprendere l’entità del processo epurativo e per poter fare un bilancio che tenga conto della sorte cui andarono incontro i combattenti di entrambi gli schieramenti: i fascisti e i collaborazionisti da un lato e coloro che avevano dato luogo alla Resistenza dall’altro. La “caccia al fascista” nei 45 giorni che intercorsero tra il 25 luglio e l’8 settembre ‘43 fece meno di 10 morti: le repressioni nei confronti dei manifestanti 93, con 536 feriti e 2.276 arresti (p. 16).
Nel dopoguerra, e a maggior ragione col dicastero di Mario Scelba agli Interni, la repressione nei confronti degli antifascisti fu spropositatamente più dura, tanto da rendere necessaria una seconda amnistia (1953, proposta dal guardasigilli Antonio Azara) per liberare dalla detenzione un gran numero di partigiani ancora detenuti. Di particolare interesse, in questo senso, le vicende riportate dei cosiddetti «pazzi per la libertà», ovvero tutti coloro che conobbero quale destino punitivo l’internamento manicomiale (p. 150).