Mirko Dolfi (1992) nel 2018 ho ottenuto la laurea in filosofia e forme del sapere all'Università di Pisa, con una tesi dedicata a Giovanni Gentile e alla filosofia italiana tra '800 e '900. In seguito ha partecipato come borsista ad alcuni seminari e corsi organizzati dall'Istituto degli studi filosofici di Napoli, approfondendo, in particolar modo, questioni relative all'idealismo tedesco e al pensiero di Heidegger. Ho pubblicato articoli scientifici nella riviste "Glaux", "Areopago" e "Quaderni di Inschibboleth". Nel 2023 ho conseguito l'abilitazione per l'insegnamento della storia e della filosofia nei licei (cdc A019).

Recensione a: B. Croce, La fine della civiltà. L’Anticristo che è in noi, Morcelliana, Brescia 2022, pp. 112, € 10,00.

Nell’ambito della vivace ripresa degli studi crociani in Italia, questo intenso lavoro merita senz’altro una menzione. Il volume è composto da quattro testi scritti da Benedetto Croce nei primi anni del dopoguerra (più precisamente, tra il 1946 e il 1952) ed è completato da un interessante saggio di Ilario Bertoletti, volto a cogliere la genesi storica e il significato teorico di essi.

La scelta delle pagine non è casuale: il libro, nel suo complesso, si presenta come una testimonianza vivida di quella che è un’epoca in transizione, lasciando emergere i sintomi di una crisi profonda, capace di attraversare la storia e il pensiero che di questa si fa carico. In effetti, l’acuta inquietudine che si respira è il segno, in primo luogo, dei travagli interni alla speculazione crociana, sempre più distante dall’armonia del sistema dei distinti e dalla piena circolarità di una realtà spirituale in se stessa compiuta; il principio razionale dell’esistenza umana è inevitabilmente minacciato dall’incombenza di un quid che, non lasciandosi annientare dalla riflessione, diviene anche l’emblema della faticosa ricostruzione dell’Europa nel secondo dopoguerra.

Il primo saggio della raccolta (dal titolo assai significativo La fine della civiltà) viene composto da Croce nel 1946 e inserito nel corposo volume Filosofia e storiografia, pubblicato nel 1948. Il testo inizia con queste angosciate parole:

Nel corso e al termine della seconda guerra mondiale si è fatta viva dappertutto la stringente inquietudine di una fine che si prepara, e che potrebbe nei prossimi tempi attuarsi, della civiltà o, per designarla col nome della sua rappresentazione storica e del suo simbolo, della civiltà europea (p. 13).

L’idea quasi apocalittica di una cesura netta all’interno del processo storico mette in crisi la prospettiva di un’evoluzione graduale e progressiva delle vicende dell’umanità; vi sono momenti epocali in cui il flusso degli eventi sembra ripiegarsi su di sé, per poi quasi implodere, generando fratture abissali.

In tale riguardo è da avvertire che per decadenza e fine di una civiltà non s’intendono gli esaurimenti e superamenti e le sostituzioni che spontaneamente avvengono e che quotidianamente si preparano […] La fine della civiltà, di cui si discorre, della civiltà in universale, è non l’elevamento ma la rottura della tradizione, l’instaurazione della barbarie, ed ha luogo quando gli spiriti inferiori e barbarici, che, pur tenuti a freno, sono in ogni società civile, riprendono vigore e, in ultimo, preponderanza e signoria (p. 17).

Se, giunti a questo punto, ci si potrebbe aspettare un richiamo più diretto a quelli che sono i tumulti della contemporaneità, quello che emerge, invece, è il vigore speculativo di Croce: la descrizione della crisi di un’epoca ha la sua base nella lacerazione essenziale dello Spirito.

I nostri vecchi storici, come Niccolò Machiavelli, sapevano e dicevano che le cose umane dipendono da due potenze, la Fortuna e la Virtù: che era un dire un po’ semplice e tuttavia rispondente a realtà, se lo si viene approfondendo e in fine lo si determina nell’altra dualità, dell’impeto vitale e della creatività morale, del duplice ordine delle forze, le vitali ed organiche e le morali, ciascuno delle quali ubbidisce alla sua legge che non è quella dell’altro ordine, ma nessuno dei due può far di meno dell’altro, né è eterogeneo rispetto all’altro, e sebbene l’uno metaforicamente si dica materiale o naturale e l’altra spirituale, in verità sono l’uno e l’altro spirituali, comprendono insieme l’unità spirituale che è unità dinamica e dialettica […] (p. 19).

La realtà spirituale, dunque, ben lungi dall’incarnare la risoluzione pacifica di ogni conflitto, racchiude in sé il significato ultimo dell’inquietudine; le fragilità della storia sono da ricondurre a quello che è lo scontro perenne tra forze opposte e complementari, dal momento che «almanaccare che l’elemento morale in noi operi da solo è pensiero sciocco, perché, se così fosse non avrebbe niente da operare» (p. 21).

In tutto ciò viene a palesarsi un certo disincanto, ma anche l’esigenza di farsi carico fino in fondo della contraddizione, accettandola come il motore dell’esistenza, senza che questo, però, significhi cedere alla forza potenzialmente distruttiva di essa. Certo, lo sforzo del pensiero è faticoso, non privo di oscillazioni e travagli, in questo aderendo alla «visione della civiltà umana come il fiore che nasce sulle rocce e che un nembo avverso strappa e fa morire, e del pregio suo che non è nell’eternità che non possiede, ma nella forza eterna e immortale dello spirito che può produrla sempre nuova e più intensa» (pp. 28-29). Ed è quest’ultima una bella immagine per cercare di comprendere quella che è l’insistenza di Croce, nel rimarcare la serietà del lavoro intellettuale, o, più in generale, dell’operosità dello spirito, sempre in grado, nonostante tutto, di arginare l’irrompere della catastrofe, non lasciandosi avvolgere da un pessimismo impotente: «Praticamente, si sa quale sia il nostro dovere: combattere ciascuno di noi, nella sua cerchia e coi suoi mezzi, pro aris et focis, per le nostre chiese e le nostre case, difendendole fino all’estremo» (p. 30).

Il secondo scritto della raccolta (intitolato L’Anticristo che è in noi e risalente anch’esso al 1946) testimonia l’intreccio tra la riflessione filosofica (e storica) e l’utilizzo di categorie teologiche, se pur chiaramente inserite in una cornice secolarizzata. La figura di partenza del saggio è, appunto, quella dell’Anticristo, re-interpretata in una chiave sostanzialmente “umanistica”. Scrive Croce:

In verità, l’Anticristo non è un uomo, né un istituto, né una classe, né una razza, né un popolo, né uno Stato ma una tendenza della nostra anima […] E anche quando noi lo aborriamo e lo combattiamo con tutte le nostre forze, non lo rendiamo mai a noi esterno ed estraneo, perché nessuno di noi si può distaccare con un taglio netto dalla società e dalla umanità alla quale appartiene (pp. 33-34).

Il ragionamento, poi, si fa più radicale, nel momento in cui Croce distingue l’Anticristo dalla semplice «umana peccaminosità», scorgendolo, più propriamente, nel «disconoscimento, nella negazione, nell’oltraggio, nella irrisione dei valori stessi», nel «negativo che vuole comportarsi come positivo ed essere come tale non più creazione ma, se così si potesse dire, dis-creazione» (pp. 36-37). Le espressioni vagamente religiose utilizzate da Croce divengono un utile strumento per illuminare alcuni dei nodi cruciali della contemporaneità; non vi è qui nessuna visione strettamente teologica dell’uomo (su queste questioni, rimando al saggio conclusivo di Bertoletti), ma anzi un pensare la storia attraverso (anche) le categorie della teologia, con lo scopo di individuare nell’agire di ognuno il dovere più nobile dello spirito e un argine contro la deriva di una potenziale tirannide.

Il bene, l’attuazione di essi [dei valori] si fa solamente col risolvere problemi individuali, […] Ora, contro la libertà, contro l’individualizzamento che è la concretezza storica degli ideali, l’Anticristo pone se stesso come un universale senza individualizzamento, universale astratto che è un tiranno stupido ma pure un tiranno (pp. 40).

Si configurano, qui, i presupposti teorici di quella che è la posizione assunta da Croce, al termine della seconda guerra mondiale: la difesa di un liberalismo autentico, capace di tradurre gli ideali universali nella vita dell’individuo, si scontra con l’affermazione di progetti politici astratti, fautori di una falsa libertà. Nelle pagine successive il rimando ai totalitarismi si fa esplicito, ma vi è qui una traccia dell’antica diffidenza di Croce verso le filosofie della storia: la storicità vive nello sforzo costante dell’umanità a migliorarsi, tenendo a bada le ombre necessariamente presenti in ognuno di noi, senza che ciò possa essere assorbito da costruzioni aprioristiche, dove l’individualità dello spirito si disperde. Certo, la linfa vitale dello proposta dell’autore non può nemmeno risolversi in mero culturalismo, in una filologia talvolta fine a se stessa. Il soggetto crociano, si fa portatore di istanze inerenti l’essenza dell’individuo in quanto tale, in una circolarità tra filosofia e storia, che  intende allontanarsi dai rispettivi riduzionismi: così come il concetto non può annientare la ricchezza dell’empirico, non è legittimo, nel nome di quest’ultimo, sacrificare qualsiasi esigenza speculativa.

Gli ultimi due breve saggi del volume (Il peccato originale, pubblicato nel 1950; La vita, la morte, il dovere, scritto nel 1952) contribuiscono a delineare il quadro con definitiva chiarezza: natura e spirito, male e bene, puro e impuro si delineano sempre più nel loro indissolubile legame, completando quello che è un documento assai prezioso per inquadrare le infinite sfumature del Novecento, ma anche le molteplici anime della filosofia crociana.

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