Diego Benedetto Panetta (Gaeta, 1992) è un praticante notaio e studioso di Filosofia del Diritto e della Politica. È laureato in Giurisprudenza all’Università Pontificia Lateranense (Città del Vaticano) dove si è specializzato in Filosofia del Diritto, sotto la guida del prof. Francesco D’Agostino. Presso la stessa Università ha conseguito un master in Diritto Canonico e ha collaborato con la Cattedra di ricerca “Giovanni Paolo II” in Filosofia e Storia delle Istituzioni Europee presieduta dall’On. prof. Rocco Buttiglione e con l’Area internazionale di ricerca “Caritas in veritate”, per lo studio della Dottrina sociale della Chiesa. Attualmente frequenta la scuola di preparazione al concorso notarile e collabora con diverse testate giornalistiche.

Recensione a
A. Berger, Tolkien, l’Europa e la Tradizione. La civiltà e l’immaginario, Passaggio al Bosco, 2022, p. 93, € 10.00.

Armand Berger è un germanista e in questo agile volume mostra al lettore lo sfondo epico e mitologico dal quale lo scrittore inglese John Ronald Raoul Tolkien (1892-1973) ha tratto spunto per scrivere una delle opere letterarie più note ed importanti del XX secolo: Il Signore degli Anelli.

Tolkien commise una infrazione alle regole, specie a quelle che presiedono all’ancora (per poco?) vigente studio accademico delle letterature antiche. Esse vogliono che il filologo o lo storico del gusto partecipi per la parte riservata al suo ufficio all’opera di schedatura universale […]. Guai a far rivivere l’antico (uccidendo il moderno). In The Lord of the Rings Tolkien viceversa riparla, in una lingua che ha la semplicità dell’anglosassone o del medioinglese, di paesaggi che pare d’aver già amato leggendo Beowulf o Sir Gawaim o Le Morte Darthur, di creature campate tra il mondo sublunare e il terzo cielo, di essenze incarnate in forze fantastiche, di archetipi divenute figure. Naturalmente le infrazioni di Tolkien non potevano che suscitare le reazioni coatte, sonnamboliche e feroci che si sanno di prammatica. “Non è la sua un’opera staccata dalla realtà? Non è forse un’evasione?” (E. Zolla, Introduzione, in Il Signore degli Anelli, trad. it., Bompiani, Milano 2000, p. 5).

A questi “feroci” interrogativi, che Zolla riporta accuratamente, tenta di rispondere l’autore del libro che presentiamo. E lo fa nell’unico modo in cui è possibile farlo, cioè scavando a fondo non soltanto nell’universum di fonti tolkieniane, ma anche nel pensiero stesso dello scrittore inglese.

Tolkien, infatti, non è semplicemente un ripetitore di cose già dette o di epopee epiche già narrate. Egli trae dall’armadio dell’epica e delle tradizioni europee, elementi, motivi, personaggi su cui innesta intuizioni personalissime e una grandiosa capacità di rivisitazione di storie e significati. Non a caso, sin dall’uscita dell’opera, ciò che ha affascinato e interessato i lettori de Il Signore degli Anelli è l’operazione “umana, troppo umana”, ma basilare, della reductio ad unum. E che consiste specificamente nel tentare di rispondere alla domanda fondamentale, ovvero: qual è il significato che si staglia sullo sfondo del romanzo?

Nella Prefazione Paolo Gulisano scrive che l’opera di Tolkien è anzitutto «un autentico manuale di sopravvivenza tra gli errori e gli orrori della Modernità» (p. 9). Il canone ideologico però è impossibilitato a rispondere circa il suo significato ultimo. Per scoprirlo, bisogna necessariamente ricorrere alla sana filosofia; vale a dire a quella filosofia per la quale la metafisica non costituisce un impedimento, ma la via privilegiata per accedere alla realtà.

Tra i più deleteri errori ed orrori della Modernità, infatti, vi è sicuramente quello di aver negato il diritto di esistenza alla metafisica e di aver dichiarato guerra al mito e alla fiaba. Ciò assume particolare rilevanza per quel che concerne la costruzione di un immaginario nel quale i valori di una civiltà possano riflettersi ed incarnarsi. Armand Berger sottolinea molto bene quest’ultimo aspetto quando ascrive alla fiaba quattro valori fondamentali. Il primo, quello di creare mondi “altri” (a tal proposito Tolkien parla di “subcreazione”) ma pur sempre credibili; il secondo, quello di offrire stupore, meraviglia; il terzo, diretta conseguenza del secondo, di procurare evasione e gioia; infine, il quarto, quello cioè di prospettare una fine gioiosa: in termini tolkieniani, una “eucatastrofe”. E il mito, al pari della fiaba, è intimamente legato alla metafisica.

In una pagina assai intensa, l’autore spiega che nell’opera tolkieniana «il mito porta alla tradizione cristiana una forza drammatica ancora sconosciuta». In altre parole, «l’immaginazione porta un’esaltazione dei simboli a opera della ragione: essa trasforma in creazione ciò che è visione pura». In questo senso, i mille sfondi fantastici che costellano drammi ed epiche servono paradossalmente lo scopo di “iniettare” in modo ancora più efficace realtà al reale. «Più l’ispirazione morale si eleva, più il mito si ravviva e più il realismo diventa intenso», osserva Berger (p. 52). Ma si è anche detto inizialmente che la capacità di Tolkien di immettere intuizioni personali è ben visibile. Risulta dunque fondamentale provare a decriptare alcuni suoi tratti salienti.

Berger, ad esempio, si sofferma sull’eroismo, ma a ben vedere vi sono almeno due tipologie di eroismo presenti nel romanzo. L’uno, in senso classico, incarnato da Aragorn, l’altro, dai connotati profondamente cristiani, incarnato da Frodo e Sam. Su questa ambivalenza si è soffermato in particolar modo lo studioso tolkieniano, nonché attuale direttore dell’Osservatore Romano, Andrea Monda, autore di un saggio dal titolo L’Anello e la Croce. Significato teologico de «Il Signore degli anelli».

Citando il teologo e cardinale Jean Daniélou (1905-1974), secondo cui «l’eroismo dimostra quel che può fare l’uomo. La santità dimostra quel che può fare Dio», Monda spiega come Tolkien abbia voluto creare una sorta di «anti-eroi» o di «eroi alla rovescia», almeno a giudicare dal canone classico con cui si è da sempre inteso caratterizzare l’eroismo. In quest’ottica si spiega il carattere di Gandalf, il mago così poco “magico”, ma spesso stanco e scorbutico; il personaggio di Aragorn, un condottiero pieno di dubbi, e soprattutto si spiega il “fallimento” di Frodo, il protagonista. La sua santità non potrebbe coincidere con l’affermazione del suo potere, ma nell’essere strumento per il dispiegarsi della potenza della grazia di Dio. Quando si compie la missione di Frodo? Se fossimo in un mondo pagano si dovrebbe dire nel momento in cui Frodo getta l’Anello per distruggerlo nel fuoco e, visto che questo momento non c’è si dovrebbe dedurre che Frodo non è un eroe. Invece Frodo è quel particolare tipo di eroe-santo che, affidandosi alla Provvidenza, riesce a portare a compimento la sua missione, e questo avviene quando, a più riprese, egli sorprendentemente prova pietà e perdona Gollum, a conferma che nella Terra di Mezzo il lettore si muove all’interno di un mondo cristiano (A. Monda, L’Anello e la Croce. Significato teologico de «Il Signore degli anelli», Rubbettino, Soveria Mannelli 2008, p. 184).

L’affresco che ne viene fuori complessivamente è suggestivo ed affascinante. Ma, probabilmente, le parole più adatte le riserva lo stesso autore del libro che si sta presentando, quando intitola uno dei capitoli del saggio con le seguenti parole, davvero significative: «La fantasia ovvero l’elogio della tradizione». Perché, come si diceva poc’anzi, l’opera creativa che dà luogo alla subcreazione tolkieniana si serve senza dubbio dell’immaginazione, ma mette quest’ultima a servizio della tradizione, attraverso la combinazione armoniosa ed originale di diverse culture che hanno dato vita al patrimonio mitologico europeo (tanto da far giustamente parlare a Berger di «apologia della cultura europea») e per mezzo del fil rouge rappresentato dalla tradizione cristiana.

Un cenno, infine, lo merita la visione della natura così com’è presente nell’opera di Tolkien, che egli mutua del resto dalla antica letteratura inglese. Nell’opera tolkieniana la natura gioca un ruolo molto significativo. È come se la natura sondasse e percepisse prima delle creature che abitano la Terra di Mezzo la presenza del Bene o del Male in atto. Ne La Contea i campi sono rigogliosi, le colline docili, il clima è mite e il verde costituisce la vera nota dominante di tutto. Non appena si giunge ai suoi confini, però, l’aspetto muta radicalmente. Le foreste divengono improvvisamente “aggressive”, in quanto il male è presente nell’aria e la natura in qualche modo sembra esserne influenzata. Quella di Tolkien è sì una concezione ecologica, ma si tratta di un’ecologia che procede anzitutto dall’uomo, per poi riflettersi nella natura. La natura, a sua volta, riflette un ordine presente ed operante in essa che l’uomo deve certamente rispettare. Per poterlo fare, però, è necessario che anche egli riconosca e rispetti l’ordine impressogli dal Creatore. Soltanto da un’ecologia realmente umana può sorgere una sana concezione ecologica, che ha rispetto e cura del creato senza cadere in idolatrie.

Il Male, viceversa, ha in odio il creato poiché esso rivela l’ordine e, dunque, la Causa che l’ha posto in essere. Essa deve essere quanto più occultata per far spazio alla forza dell’artificialità. L’industrializzazione aggressiva e selvaggia di cui fa sfoggio la cultura materialista moderna è da Tolkien apertamente criticata, al punto da ritagliarle uno spazio letterario imponente, se si pensi a ciò che si diceva poc’anzi, ossia alla capacità dello scrittore inglese di anticipare spesso la presenza del Male, così come del Bene, attraverso delle descrizioni paesaggistiche altamente esemplificative.

Molte altre interessanti considerazioni attraversano il testo di Berger, che dà modo di riflettere su aspetti poco noti o spesso mai considerati. Non resta, dunque, che formulare l’invito ai lettori ad incamminarsi in questa avventura, ove si avrà occasione di incontrare «il reale, il mitologico e l’immaginario».

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