Andrea Fatticcioni si è laureato in Storia Contemporanea presso l’Università degli studi di Pisa, attualmente è iscritto al corso magistrale in Storia e Civiltà presso il medesimo ateneo. I suoi ambiti di studio principali sono la Storia culturale e la Storia della scienza

Recensione a
S. Levitsky e D. Ziblatt, Come muoiono le democrazie
Laterza, Roma-Bari 2019, pp. 328, €12,00.

Oggi è raro che la morte delle democrazie venga decretata da un coup d’état. Il pericolo proviene piuttosto da distorsioni endogene, da parte di leader eletti, che stravolgono e strumentalizzano gradualmente le istituzioni, svuotando di significato la democrazia di cui pur mantengono le vestigia. Quando la classe politica abbandona il reciproco riconoscimento di legittimità, quando le leggi non scritte del buon gioco politico vengono meno l’intero establishment ne esce danneggiato e la porta si apre a leader populisti e/o autoritari capaci di far breccia nelle società, specie se fortemente polarizzate, rinnegando logica e dialettica del compromesso e fomentando desideri di palingenesi sociale. Questa tesi viene motivata riferendosi a numerose esperienze storiche, con una forte centratura sul caso americano, e servendosi di diversi approcci metodologici; l’opera non può essere ricondotta ad uno studio del populismo o dell’autoritarismo, ma piuttosto ad un’indagine sulle possibilità della democrazia liberale (in particolare statunitense) di rispondervi.

L’intento non è teoretico o puramente accademico, ma anzi ben radicato nella volontà di fornire consigli pratici per proteggere l’impianto democratico-liberale, pienamente abbracciato dagli autori. Steven Levitsky e Daniel Ziblatt sono due politologi statunitensi, professori alla Harvard Kennedy School of Government ed esperti di sistemi democratici; rispettivamente specialisti del contesto sudamericano e di quello europeo. La nostra democrazia è in pericolo? La domanda all’inizio del libro riflette le preoccupazioni dei due studiosi i quali avvertono nella politica statunitense attuale dei campanelli d’allarme, dei segnali che spesso nel mondo si sono tradotti in crisi democratiche. L’indebolimento democratico affonda le sue radici in una polarizzazione estrema della società, mai così acuta dai tempi della guerra civile, che oltrepassa le divergenze sulle politiche e si «trasforma in un conflitto esistenziale legato a razza e cultura». In apertura vengono esaminati i “patti con il diavolo”, i casi in cui una classe dirigente abbia abdicato alle sue responsabilità in favore di figure demagogiche ed autoritarie, trovandosi poi esautorata dei propri poteri.

Si passa poi alla disamina del tradizionale ruolo di “sentinella” dei partiti statunitensi sulla scelta dei candidati alle presidenziali e del fallimento di tale funzione nella vittoria di Trump. Nel quarto capitolo sono presentate le tre importanti strategie degli autocrati mondiali: controllo degli arbitri, esclusione dei principali oppositori, modifica delle regole del gioco. Qui il volume fa ampiamente uso dell’approccio comparativo. Le due sezioni successive trattano delle «barriere di sicurezza», complesso di pratiche informali che integrano idealmente le leggi scritte e conferiscono alla democrazia solidità e duttilità. Il settimo capitolo ripercorre le tappe principali dello «sfaldamento» democratico statunitense mentre agli ultimi due sono affidate la “pagella” da autocrate del primo anno di Trump e le soluzioni da adottare per evitare gli scenari più inquietanti nel breve e medio termine.

Trump ha ampio spazio nell’economia del testo ed è positivo ai quattro parametri (scarsa considerazione del processo democratico, negazione della legittimità degli avversari, tolleranza o incoraggiamento della violenza, disponibilità a limitare i diritti civili degli oppositori) che sono funzionali all’individuazione dell’autocrate. Il tycoon viene definito un «violatore seriale di norme», il cui operato ha permesso che l’America derubricasse la devianza politica e sta erodendo la solidità della democrazia, di cui gli Usa non sarebbero più un modello nel mondo. Primo presidente outsider, Trump non ha infranto le barriere di sicurezza più solide, ma ha aumentato le possibilità che un altro presidente possa farlo in futuro. Gli Stati Uniti hanno visto molti estremisti e populisti, ma le cabine di regia dei partiti avevano sempre limitato la loro influenza sulla politica alta (a scapito, va detto, della trasparenza) e grazie a temperanza istituzionale e tolleranza reciproca la democrazia si era sempre ben difesa anche in assenza di «camere fumose»: la prima aveva frenato molti presidenti e politici dall’utilizzo del «gioco pesante costituzionale», la seconda aveva garantito il riconoscimento della legittimità dei propri avversari. Entrambe si erano basate sulla comprensione dell’importanza di preservare la legittimità della dimensione procedurale della democrazia.

Lo stato di salute istituzionale è però estremamente peggiorato dagli ultimi stress test (èra Roosevelt, maccartismo e Watergate). La moltiplicazione dei canali informativi e la maggiore vincolatività delle primarie hanno minato la capacità di controllo dei partiti sulla scelta dei candidati, mentre il rilassamento della legislazione finanziamenti ha permesso ad un numero maggiore di outsider di presentarsi (oltre a condizionare pesantemente le agende). Inoltre, se l’elezione di Trump ha reso impellente la riflessione sull’impatto di stilemi comunicativi violenti e manichei, egli esaspera una tendenza che non è nata con lui. Dalla fine della Guerra Fredda, infatti, la crescente polarizzazione che affligge il paese ha permeato la classe dirigente che ha rigettato i valori della cooperazione ed è approdata alla concezione di una war-like policy, dove non si hanno avversari ma nemici.

La collocazione nei primi anni Novanta di una rinnovata cultura politica populista e la sua estrema recrudescenza nel ventunesimo secolo trovano riscontro nella letteratura dedicata. Indagare le origini di questa frattura non è scopo del volume, che rileva però come il crescente peso politico e demografico delle minoranze abbia favorito un riallineamento dell’elettorato bianco-cattolico all’interno del partito repubblicano, che, di conseguenza, avrebbe sviluppato politiche rispondenti ad una base elettorale omogenea e mal disposta a cedere pacificamente la propria posizione di superiorità politica, economica e sociale. La radicalizzazione del partito si sarebbe poi estesa all’intera classe politica. I cambiamenti economici degli ultimi decenni hanno poi indebolito la classe media e favorito il risentimento sociale giocando quindi un ruolo importante, anche se va precisato come non si riscontri nell’elaborato un’esplicita critica al neoliberismo, presente invece in varie opere che trattano di involuzioni democratiche.

Lungo queste linee (irrigidimento dell’identità politica, etnica e religiosa; disuguaglianza e rallentamento della crescita; abbandono del dialogo) si articolano gli interventi auspicati: è necessario che il partito repubblicano diversifichi il suo elettorato e allontani l’estremismo e la retorica del nazionalismo bianco, anche a costo di perdere importanti sostenitori come l’Nra (National Rifle Association; organizzazione che agisce in favore dei detentori di armi da fuoco negli Usa). Nell’immediato, i democratici devono dar vita ad uno schieramento antitrumpiano ad ampio raggio e più in generale non devono adottare i codici comunicativi dell’avversario né assolutamente abbandonare le minoranze nella speranza di recuperare i bianchi, ripetendo l’errore del compromesso post-guerra civile in cui la riconciliazione fu raggiunta a scapito dei diritti degli afroamericani. Servirà poi un impegno trasversale in programmi di tutela (assistenza sanitaria generalizzata, sostegno alla maternità, politiche del lavoro) su basi universalistiche e non di reddito, poiché solo così sarà possibile mitigare l’astio sociale senza legare il sostegno alla percezione di favoritismi. Non sarà un compito facile (Trump o non Trump) coniugare con successo multiculturalismo, tutele sociali e democrazia reale, ma questa sfida deve essere necessariamente vinta.

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