Marco Bertuccio (1994) ha conseguito la Laurea Magistrale in Storia e Società presso l’Università degli Studi Roma Tre nel 2020, discutendo una tesi dal titolo “La lunga crisi argentina: il Piano Brady e il circolo vizioso del debito estero”. Attualmente è dottorando di ricerca in Scienze Politiche presso l’Università degli Studi Roma Tre. Sotto la supervisione del Prof. Gaetano Sabatini, sta lavorando ad un progetto di storia economica sul processo di industrializzazione argentino nella seconda parte del XX secolo.

Recensione a: G. Conte, Riformare i vinti. Storia e critica delle riforme liberal-capitaliste, Guerini e Associati, Milano, 2022, pp. 184; € 19,50.

La riforma è un’arma o un’opportunità? Un processo di effettiva trasformazione o uno strumento che cristallizza la continuità nel miraggio del cambiamento?

Nel suo nuovo libro Riformare i Vinti Giampaolo Conte si inserisce in uno dei dibattiti più accesi di sempre, tentando di fornisci una sua personale risposta. Sfruttando la cassetta degli attrezzi dello storico, e più in particolare dello storico economico, Conte riesce validamente a dimostrarci come dietro l’illusione riformista si celi spesso l’insita natura dello status quo. L’approccio seguito non si ferma però alla disciplina di provenienza dell’Autore, che riesce infatti ad abbracciare uno spettro metodologico ben più ampio: dall’economia alla geopolitica; dalla sociologia alla politologia. La spinosità della questione, nonché la varietà delle angolazioni con cui Conte ha deciso di osservarla non danneggiano però l’accessibilità del testo. Riformare i Vinti è quindi un eclettico lavoro di sintesi, che non perde nel suo percorso uno degli elementi più importanti a cui la saggistica deve aspirare: la comprensibilità.

Il testo è diviso in tre capitoli, al cui interno convivono in perfetto equilibrio non solo teoria e praxis, ma anche aspetto qualitativo e quantitativo. Riguardo al primo punto, il lavoro riesce a mantenere un buon bilanciamento tra movimento “organico” e movimento “congiunturale”, usando la terminologia gramsciana. Se infatti per Antonio Gramsci credere che sia importante solo il primo ci farebbe cadere nella trappola “economicista”, dare troppa rilevanza al secondo ci bloccherebbe in uno sterile “idealismo”. Sul secondo punto, i dati quantitativi sono inseriti solo in maniera funzionale, facendo del contenuto qualitativo la vera struttura del testo. L’interpretazione dell’Autore è chiara, non si nasconde dietro il falso mito dell’apoliticità. D’altronde lo stesso empirismo quantitativo non tiene spesso conto dello specifico contesto metodologico nel quale si sviluppa. Citando György Lukács, esso infatti «non si rende conto che l’enumerazione più semplice, la catalogazione di ‘fatti’ più scarna di commenti è già un’‘interpretazione’: che già fin d’ora i fatti sono appresi a partire da una teoria, secondo un metodo, sono strati strappati al contesto di una teoria»[1]. Se quindi, citando Gramsci, «la mediazione professionale è difficilmente scindibile dalla mediazione politica»[2], l’intellettuale, così come la riforma, non può mai essere veramente neutrale. Si torna così nel merito del lavoro: il processo riformistico come strumento di armonizzazione egemonica dell’asimmetria insita nel sistema-mondo.

Per descriverci questo processo, l’Autore utilizza l’esempio del Regno Unito nel XIX secolo. Quella che Conte chiama «riforma esterna liberal-capitalista» è una dinamica che nasce infatti da quell’evento unico e irripetibile rappresentato dall’industrializzazione inglese e dal conseguente instaurarsi della Pax Britannica dominata dal free-trade imperialism. Il testo evidenzia bene come la riforma nasce e cresce verticalmente, all’interno del Centro del sistema-mondo, ma si sviluppa completamente solo ad un livello orizzontale, fuori da esso. Ma se per il Regno Unito la dinamica è stata soprattutto endogena, per i paesi cosiddetti «semi-periferici»[3] si è trattato di un fenomeno per lo più esogeno. In linea con la descrizione degli sviluppi ciclici del capitalismo di Immanuel Wallerstein, Fernand Braudel e Giovanni Arrighi, anche per Conte l’espansione materiale precede sempre quella finanziaria. Di conseguenza il processo riformistico esterno si origina dagli accordi di libero scambio che il paese egemone conclude con i paesi più propriamente semi-periferici, impattando direttamente sul settore manifatturiero di questi ultimi. Trainata dal motore della massimizzazione dell’accumulazione di capitale, da qui la riforma esterna liberal-capitalista sconfina nel settore finanziario, arrivando infine a toccare società, politica e cultura. Conte non manca però di evidenziare il ruolo dei compradores nel processo riformistico semiperiferico, ovvero di quella borghesia locale che secondo Paul Baran si espande e prospera «nell’orbita del capitale estero»[4]. Come ci ricorda lo stesso Autore, «il seme dell’ideologia capitalista viene piantato nell’orto del riformismo locale» (p. 49).

Viene quindi a manifestarsi il cosmopolitismo borghese, tenuto insieme da quegli interessi di classe che travalicano anche i confini nazionali. Del resto, se da una parte la riforma funge da apripista per l’espansione capitalistica della potenza egemone, essa è altrettanto fondamentale per gli specifici interessi del braudeliano “contro-mercato”. La riforma esterna liberal-capitalista aiuta quindi il capitale a rendersi sempre più transnazionale, a de-territorializzarsi anche dallo stesso Stato egemone. La «doppia morale» (p. 13) del liberalismo, ovvero quell’incongruenza tra ideologia e azione effettiva è in realtà solo apparente. Attingendo dall’immenso lavoro di Gramsci, l’Autore ci ricorda come il liberalismo sia tutt’altro che uno sviluppo naturale dell’uomo, ma un preciso programma politico e in quanto tale espressione di specifiche istanze socio-economiche. A questo substrato ideologico va inoltre aggiunto il fatto che strutturalmente il capitalismo è un fenomeno globale che presuppone però l’esistenza di capitalismi nazionali disomogenei. Il ruolo del liberalismo sembra quindi essere stato quello di ampliare la gamma dei diritti politici per legittimare la diseguaglianza economica insita nel sistema capitalista. Di conseguenza la riforma è stata necessaria per aumentare il consenso per il liberalismo, atto all’accettazione del sistema produttivo capitalistico.

Gli studi sull’Impero ottomano permettono a Conte un punto di vista privilegiato sulle dinamiche che hanno legato semi-periferia e centro del sistema-mondo. Quanto fino ad ora descritto viene quindi argomentato attraverso il costante utilizzo di tre casi-studio, e delle loro connessioni con la potenza britannica: l’Impero ottomano, l’Egitto e la Cina. Non mancando di evidenziarne le differenze e le specificità, Conte ci mostra una certa omogeneità nell’applicazione operativa della riforma esterna liberal-capitalista, mettendo in risalto soprattutto il ruolo giocato dagli accordi di libero scambio e dal debito estero. Alla fine del libro al lettore saranno infine chiare le dinamiche che hanno segnato quel graduale passaggio dalla «coercizione manifesta» alla «cooperazione vincolante» (p. 154) nel processo riformistico di questi Paesi.

In conclusione il testo di Conte esalta le virtù di un approccio globale allo studio della storia, dimostrando l’importanza della connessione tra specifico e intero, tra congiuntura e organicità. Con le parole di Lukács:

è senz’altro possibile che qualcuno conosca un certo evento storico in modo sostanzialmente corretto, senza essere per questo in grado di cogliere ciò che questo evento è nella sua realtà effettiva, nella sua funzione reale nell’intero storico a cui appartiene; quindi senza comprenderlo nell’unità del processo storico[5].

Riformare i Vinti ha senza ombra di dubbio vinto questa sfida.

NOTE

[1] G. Lukács, Storia e coscienza di classe, SugarCo Edizioni, Milano-Roma 1978, p. 7

[2] A. Gramsci, La formazione degli intellettuali, in Id., Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, Einaudi, Torino, 1955, p. 11.

[3] Come ci ricorda lo stesso Autore, per paese semi-periferico ci si riferisce a nazioni che possiedono quel minimo grado di sviluppo strutturale e istituzionale da rendere impossibile l’utilizzo del solo strumento coercitivo, e necessario il dispiegamento del soft-power.

[4] P.A. Baran, Il surplus economico e la teoria marxista dello sviluppo, Feltrinelli, Milano 1962, p. 210.

[5] G. Lukács, op. cit., p. 17.

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