Enrico Palma (1995) è dottore di ricerca in Scienze dell'interpretazione presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell'Università di Catania. Nel 2022 ha conseguito l’abilitazione all’insegnamento per la classe di concorso A019 (Filosofia e Storia). Le sue aree di ricerca sono la filosofia teoretica, l’ermeneutica letteraria e i paganesimi antichi. Ha pubblicato saggi e articoli per riviste di filosofia, letteratura e fotografia. Con la cura del volume Psyché. L’anima ha contribuito alla collana del «Corriere della Sera» dedicate a Greco. Lingua, storia e cultura di una grande civiltà  (a cura di M. Centanni e P.B. Cipolla, 2022/2023). È redattore della rivista culturale online «Il Pequod». Ha pubblicato De scriptura. Dolore e salvezza in Proust (Mimesis, 2024).

Recensione a: F. Costa, California. La fine del sogno, Mondadori, Milano 2022, pp. 198, € 18,50.

Non è tutto oro quel che luccica. È proprio il caso di rispolverare un luogo comune per riferirsi alla storia che Francesco Costa ci racconta nel suo ultimo libro, una narrazione empatica ma allo stesso tempo distaccata e oggettiva su una delle realtà economiche, sociali e culturali con cui gli States fanno da sempre vetrina e diffondono il loro progetto nel mondo. Oro perché sin dagli albori della sua storia la California ha fondato la sua fortuna sul metallo prezioso di cui in tantissimi, alla fine dell’Ottocento, andavano a caccia. Si tratta di una delle più grandi e fiorenti economie del pianeta, nonché un luogo di grandissima accumulazione di ricchezza. Tre città con diverse centinaia di migliaia di abitanti (San Francisco, Los Angeles, San Diego), la terra promessa per chiunque voglia cimentarsi nella carriera del digitale, dei software e dei social, la migliore passerella in cui sfilare se il proprio sogno è diventare una celebrità.

Si direbbe un posto perfetto in cui vivere, almeno apparentemente, giacché le contraddizioni, se nei decenni precedenti sono state nascoste o hanno covato a lungo prima di mostrarsi in tutta la loro gravità, adesso emergono con crudele chiarezza. Costa ricostruisce anche la storia della California per capirne il presente, quelle storture che, forse il frutto dell’accentramento della ricchezza e del parossistico auto-investimento che ha fatto su se stessa, sono anche poste in un ordine ragionato: dalla difficoltà per il ceto medio di comprare o affittare una casa alla carenza d’acqua che rischia di minacciare la produzione di decine di prodotti esportati in tutto il pianeta, passando per le fibrillazioni razziali esacerbate anche qui dal caso Floyd. La California assurge dunque a modello degli Stati Uniti ultra-civilizzati, un enorme laboratorio sotto gli occhi di tutti e il cui studio non richiede particolari difficoltà, se non prestare orecchio alle zone sorprendentemente escluse, o forse è meglio dire travolte, dalla fiumana del progresso, di cui Costa si mostra finissimo ascoltatore e narratore. Dalla lettura del libro si comprende ancora meglio quanto gli Stati Uniti siano un coacervo socio-culturale rispetto al quale la difesa a spada tratta del sistema capitalistico e della ricchezza concessa a tutti come possibilità, ma ovviamente ottenibile solo da pochi, pochissimi, sembra un maldestro tentativo di celare la verità dei fatti. Talché la California, in tutto questo, rappresenta un caso lampante.

Il reportage di Costa non propone, se non rapidamente e solo per allusioni, soluzioni o prospettive di miglioramento, e in questo l’Autore si dimostra fedele al suo obiettivo di giornalista di documentare i fatti con lo scopo di farli parlare da sé. Su due punti in particolare possiamo soffermarci: casa e lavoro. È emblematico che il libro inizi riportando quello che è un vero e proprio esodo di migliaia di californiani verso gli stati limitrofi, soprattutto Texas e Nevada, indice di un cambiamento vertiginoso delle condizioni di vita nello stato di origine divenute per molti letteralmente impossibili. Come già detto, è la casa il maggiore dei problemi: acquistarne una significa svuotare tutti i propri risparmi anche per i più facoltosi, sicché una famiglia di medio reddito, impossibilitata a pagare una retta troppo elevata e soggetta a fluttuazioni del corrispettivo mensile sulla base delle oscillazioni di mercato, è costretta o a spostarsi lontano dai centri urbani, o peggio ad abbandonare l’abitazione e accamparsi in sistemazioni di fortuna come la propria automobile: «Chi perde la casa e non può permettersene un’altra finisce facilmente per strada, e da anni se ne accorgono anche i turisti: il numero dei senzatetto nelle città della California è impressionante, con interi quartieri trasformati in tendopoli e persone che non riescono a trovare un alloggio pur lavorando, e quindi avendo un reddito, oppure essendo in situazione di grave fragilità» (p. 25). E ovviamente la strada non è un luogo piacevole in cui vivere: «Per strada non ci sono codici d’onore, patti di convenienza, regole non scritte: tutto può essere fatto alle persone senzatetto, e infatti tutto gli viene fatto e tutto si fanno tra loro. Le donne si coprono di indumenti larghi allo scopo di non sembrare tali, con la vana speranza che sia sufficiente a evitare attenzioni sgradite. Gli uomini sanno che il modo migliore per essere lasciati in pace è convincere gli altri di essere pazzi, pericolosi, squinternati: e quindi urlare, esagerare, aggredire per primi, finché non diventa il loro modo standard di affrontare il mondo, la loro personalità. C’è chi racconta di come deve contendersi ogni giorno il cibo con gli animali, che siano topi o cinghiali. Mettere le mani nei rifiuti è un’esperienza quotidiana. C’è chi è stato accoltellato o picchiato mentre dormiva, anche più di una volta» (p. 39). A cui seguono naturalmente stupri, furti, persone costrette a restare sveglie e vigili durante la notte per paura di subire aggressioni e che per resistere al sonno ingeriscono droghe, sviluppando così una dipendenza e tramutandosi in coloro dai quali volevano proteggersi. Sembra proprio di assistere a qualcosa di sideralmente distante dall’oasi di felicità e benessere che doveva corrispondere alla California, a uno scenario post-apocalittico, con molte pagine dedicate ai disastri ormai quotidiani di incendi che si propagano per tutto il Paese ed emergenze idriche paragonabili a quelle delle zone desertiche del pianeta.

Un’importante questione è data dall’altra ragione di fortuna planetaria della California, quel settore tecnologico e informatico che ha reso la Silicon Valley (chiamata in questo modo per via di ciò che vi si crea, prodotti a base di silicio) uno dei miti contemporanei. Qui sono nati Internet, i computer, i sistemi operativi per farli funzionare, praticamente la quasi totalità dei programmi e delle applicazioni in uso oggi in tutto il mondo. È naturale allora che sia il bersaglio dei più ambiziosi, desiderosi di denaro, successo e fama. Eppure, come scrive Costa, «in un posto così piccolo si è sviluppato un mondo così grande da ospitare in quantità geni e altrettanto autentici cialtroni, persone dall’intelligenza straordinaria e clamorosi mitomani, tutti e tutte alla guida di un esercito – un esercito da dimensioni da impero medievale – di ragazzi e ragazze intelligentissimi, brillantissimi, studiosissimi, freschi di laurea oppure paralizzati da una postadolescenza, arrivati a San Francisco da ogni angolo del pianeta, dopo essere stati sedotti per anni dal suo mito nella propria cameretta, per tentare di giocarsela. Alcuni ce la faranno davvero. Pochi» (p. 78). I molti invece o dovranno sentirsi soddisfatti per la breve esperienza vissuta, oppure saranno spremuti al punto da rimpiangere persino la scelta che li ha condotti fin lì.

Questo, si potrebbe dire, è uno dei casi lampanti di come funzionino le cose in California, ma più in generale nel grande laboratorio americano: i pochi giungeranno all’obiettivo, i più capaci, pazienti e tenaci, ma anche i più sfacciati, arrivisti, subdoli, i cosiddetti squali; il resto invece sarà respinto crudelmente e costretto ad accodarsi al sogno realizzato di qualcun altro. Uno dei maggiori problemi sociali, culturali ed economici sta infatti nel tipo di civiltà che gli Stati Uniti sono finiti per diventare, così ricchi di buone premesse e di infinite proposte per tutti ma che in verità si concreta nel risvolto opposto: offrire la possibilità di farcela a tutti, benché in realtà saranno solo in pochissimi, per le ragioni più diverse, a farcela, a realizzare il sogno, a diventare ciò che la California prometteva con il suo mito.

È per questo allora che date tali condizioni la California, ma più in generale gli Stati Uniti, sta diventando un miscuglio spesso ingovernabile e ingestibile di disparità sociali, emergenze di ogni tipo (umanitarie, economiche, didattiche, climatiche), in cui secondo Costa il senso unico in politica (la California è da sempre un feudo del Partito Democratico) rischia di essere più paralizzante che motivo di equilibrio e stabilità. La vita, in definitiva, sta sempre più spostandosi verso una soglia di non ritorno: l’immagine di un sogno crollato su se stesso e che può salvarsi, almeno per Costa, solo «se resta una democrazia» (p. 182), quindi aperta alla pluralità dei punti di vista e meno accecata dall’oro della ricchezza da spartire tra pochi.

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