Recensione a: A.G. Biuso, Nomadismo e benedizione. Ciò che bisogna sapere prima di leggere Nietzsche, Di Girolamo Editore, Trapani 2006, pp. 200, € 16,50.
La constatazione da cui parte questo volume mi sembra delle più felici: l’umano soffre, e perché soffre pensa. Credo che una buona definizione della persona e della filosofia di Nietzsche possa essere rinvenuta esattamente in questa affermazione. Se non ci si interroga mai sul senso e sull’apparire della gioia, ma al limite solo sulla sua estrema transitorietà e sul suo inevitabile morire nella dialettica dei giorni persi e nel tramonto ineludibile che è la fine del nostro esserci, la sofferenza ci richiama a qualcosa di più originario, a una colpa da redimere, a una materia da trasformare. Infatti: «Trovare un senso alla sofferenza è il compito immane che l’umanità si è posta dalla propria comparsa» (p. 9). È una frase potente, molto delicata e assai dispendiosa per le energie spirituali e filosofiche. Ma Nietzsche fu tale forza, un «fulmine che si fa strada da solo» (p. 11), nella funambolica, contraddittoria, a tratti sgradevole ma infine grandiosa vita di pensiero di un uomo che ha reso la sofferenza l’attimo più pieno e ricolmo di gioia autentica.
Nietzsche fu infatti «energia, risolutezza, intelligenza e serenità» (p. 15), e l’ultima parola della lista riassume gli attributi elencati, una potenza di pensiero, paradosso e azione che si sublima nella fiamma del suo bruciare e nella pace di una cenere che ridarà vita ed energia a nuove forme, esistenze, felicità da consumare nel rigoglio del mondo. Fu anche un sorriso che diramò ilarità e tragedia, godimento e amarezza, assoluzione e condanna, che pur nella liberazione che la conoscenza e la vita votata a essa possono concedere restò consapevole della contraddittorietà degli impulsi irrazionali e incoercibili dell’animo umano, appunto di dionisiaco e apollineo.
Nietzsche possedeva il talento e la vocazione dell’alchimista, ovvero tramutare ogni cosa che lo sfiorasse in oro fino, avendo sempre chiara la pena contraria della tristezza, l’inettitudine e la banalità. La sua aura si estendeva anche sugli altri, ai quali dava tutto se stesso pur non volendo niente in cambio, se non la libertà che avrebbero dato a se stessi se avessero accolto dentro di loro non Friedrich ma Zarathustra, un essere talmente luminoso e nutriente che la minima ombra dell’abiezione umana su di sé causava in lui i dolori più grandi. Nietzsche era un cuore puro, uno spirito alto, un essere sidereo. Con una formula eccellente Biuso coglie il suo carattere, la sua missione e il destino di profeta e reietto che il filosofo attribuiva a se stesso:
Nietzsche fu soprattutto una persona estremamente sensibile e che era facilissimo ferire nei modi più diversi. Egli aveva dentro di sé una tale idea delle relazioni umane, una concezione altissima dell’amicizia e degli affetti, da rimanere profondamente turbato nel constatare che gli altri – anche coloro che gli erano più vicini – non provavano i sentimenti che lui stesso sentiva e che riteneva fosse naturale nutrire (p. 40).
Perché non c’è cosa peggiore che soffrire per gli altri umani, quando la possibilità di rinascere nell’avvento dell’Alterità incarnata sfugge al nostro orizzonte, un sole che si protende verso di noi con i suoi raggi e che poi viene coperto da un rovinoso fortunale, sperimentando in questo modo il dolore della sottrazione e dell’abbandono, quando la nostra finitudine, per un momento redenta e salvata, ci viene rigettata in faccia. E Nietzsche lo sapeva, conosceva la sofferenza causata dalla caduta, dalla finitudine e dalla malattia, cose che ci rimandano alla solitudine del nostro essere ma di cui la conoscenza può essere strumento per fare luce, per illuminare il mondo, quell’immenso ghiacciaio dove veniamo intrappolati col nascere ma di cui qualcosa pur ci importa.
Tale irriducibile interesse teoretico è il barlume che ci guida, la scintilla originaria che Nietzsche tramuta in folgore, in pura capacità. «Uno dei segreti di tale capacità è l’aver collocato la conoscenza nella dimensione della gioia, della più profonda completa incontaminata gioia che un umano possa provare» (p. 40). Ma perché la conoscenza ci fa provare gioia, perché è essa stessa gioia? È la saggezza di chi comprende la necessità della propria finitudine dolorosa e isolata, e che ammettendola la accoglie e la benedice. Un ideale forse vano, assurdo persino, del quale la filosofia nietzscheana, e in ciò mi sembra consistere la proposta ermeneutica di Biuso, insegna il coraggio, l’audacia, la libertà, la nobiltà e l’aristocrazia per poterlo comprendere, sostenere e infine abbracciare con convinzione.
A ciò servono i Greci, il loro spavento nei confronti della vita, della morte e della tragedia che è la fatalità dell’essere, una prospettiva continuamente aggettante sul futuro e sulla creazione di nuove possibilità. La grecità diviene dunque il paiolo ribollente dell’irrazionalità, della vita che crea e si ricrea in un boato di voluttà e distruzione, ma anche di controllo e dominio, di desiderio e misura. I Greci diventano dunque lo specchio in cui cogliere l’uomo Nietzsche, ma anche noi stessi in quanto cercatori del nostro sé inquieto e patente:
In essi si ritrova l’armonia, l’equilibrio, la solarità, la bellezza, la ragione. Si ritrova, insomma, un umanesimo compiuto pronto a farsi formula da imitare, modello da indicare nelle epoche di crisi. L’uomo greco diventa la terra della nostalgia, approdo di tutte le nostre compassioni per l’essere sofferente che siamo (p. 54).
La parola equivoca compassione richiama invero a un senso profondo del riconoscimento, a un serio e ragionato invito a immergersi in un mondo che non c’è più ma che rimane come un’essenza, uno stato d’animo, un paradigma intramontabile. Perché in fondo la Grecia è ciò che siamo, e Nietzsche avendola spiegata nelle sue opere ha detto chi siamo noi a noi stessi, un dinamitardo irrotto nella classicità dei filologi per trasformarla in una perenne modernità dello spirito.
Grecità e modernità convergono dunque per Biuso nella proposta nietzscheana di «reintegrare i due mondi facendo della vita uno strumento per la conoscenza» (p. 68), una gnosi totale, un cammino costante, certamente pericoloso ma per ciò stesso aperto al rischio e fondato sulla libertà, un peana che avoca a un’«etica dell’immanenza» (ibidem), a una vita lieve, pura, giocosa, che non distrugge bensì trasforma e fa rilucere, tracimante ironia, soprattutto quando riferita agli umani, la convivenza con i quali «può essere frutto solo del disincanto» (p. 76), per via della loro ovvia infedeltà, sicura ferocia e incolmabile distanza.
Bisogna dunque nutrire un sentimento greco, avere il coraggio di guardare questo male che ci schianta, conoscerlo e non indietreggiare, consapevoli del fatto che ciò che illumina è la possibilità che abbiamo nella nostra vita di fare conoscenza: «Per Nietzsche, insomma, il vero illuminista è il sophos, “colui che sa”, cioè colui che è consapevole della caoticità dell’esistenza e del mondo e non arretra di fronte a essa, rifugiandosi in comodi, ma sterili e ingannevoli, idoli» (p. 89), il primo dei quali è certamente il cristianesimo con la sua morale dei deboli e della castrazione della vitalità intrinseca all’umano e al mondo.
Tutto questo significa comprendere alla radice l’idea abissale dell’Eterno ritorno, di cui Biuso offre una disamina molto attenta impiantando riflessioni sul tempo e sulle sue articolazioni. È però nel senso antropologico del celebre concetto nietzscheano che si deve cogliere, come segnalato da Biuso, il tratto più pregnante dell’Ewige Widerkunft, il quale fa il paio con il prospettivismo costitutivo all’essere, «che è sempre un particolare, mutevole, nomade punto di vista sugli enti, i processi, gli eventi» (p. 100). È a questo proposito che si innesta uno dei concetti chiave del volume, nomadismo, il modo più corretto per intendere il quale sta ai miei occhi, secondo la proposta di Biuso, proprio in una dimensione temporale, irriducibile a un relativismo storicistico ma fondata sulla variabilità, motilità e mutevolezza del mondo e dei riflessi che lo colgono e che tentano di riformularlo in un’ermeneutica dell’umano in quanto temporalità e dell’Essere in quanto Tempo.
La filosofia di Nietzsche è il battistero di conoscenza in cui immergiamo il nostro corpo come tempo-morte, la nostra esistenza dolorosa che il pensiero dell’Eterno ritorno ci induce a concepire come un grumo di gloriosa pienezza, essendo tale grumo ripetuto all’infinito e per il quale dobbiamo pronunciare il nostro sì. Se possediamo abbastanza forza e talento per accettare l’abominio di rivivere la nostra vita infinite volte, se accogliamo l’assurdità di questo pensare come inevitabile e unica luce del mondo, abbiamo raggiunto la redenzione, la benedizione, che è «la massima forza che coniuga l’io effimero all’eternità del tempo, la volontà alla necessità, la sofferenza all’amore verso tutto ciò che accade, l’Amor fati come “ultimo amore”» (p. 125). Significa, in altri termini, amare il tempo riconciliandoci con la finitudine che siamo, immaginare come unica redenzione lo sconfinamento dal limite che ci definisce come eterna ripetizione di questa stessa vita finita, un abbraccio al Tempo che ci dà piacere e gioia, in altre parole la serenità.
L’Eterno ritorno è la formula massima dell’accettazione benedicente dell’esistenza, qualunque cosa essa sia stata; ed è proprio in tale benedizione che i valori vengono trasvalutati in potenza che abbraccia la vita come si fa con un’amante, riottosa e difficile certo, a volte incomprensibile nella sua crudeltà, ma in ogni caso bellissima (p. 130).
È proprio il segno della resistenza posta contro di noi a rendere belle le cose, tali perché affascinanti e difficili, seducenti e nascoste, irripetibili ma comunque eternamente divenienti e ritornanti. E per questo tipo Nietzsche ha forgiato un nome proprio, Übermensch, la figura in cui l’Eterno ritorno diventa possibile, il vero amante e appassionato della vita, chi trasforma il dolore in luce e la sofferenza in gioia, «il luogo in cui il male trova la sua metamorfosi e da ragione di condanna si trasforma in componente essenziale, per quanto drammatica, dell’esistenza, in strumento ancora di vita» (p. 159).