Giampietro "Nico" Berti (1943) ha insegnato Storia contemporanea all'Università di Padova ed è ritenuto il massimo esperto italiano di storia dell'anarchismo. Ha scritto testi fondamentali sull’evoluzione del pensiero anarchico nei suoi 150 anni di storia, rivolgendo una particolare attenzione all’anarchismo classico (Proudhon, Kropotkin, Bakunin, Malatesta). Ma si è più in generale occupato di storiografia dell’anarchismo, che ha riassunto nella nota formula da lui coniata «nella storia ma contro la storia». È stato il coordinatore nazionale del Dizionario biografico degli anarchici italiani (2003-2004). Tra le sue numerosissime pubblicazioni: Un’idea esagerata di libertà. Introduzione al pensiero anarchico (1994); Il pensiero anarchico. Dal Settecento al Novecento (1998); Errico Malatesta e il movimento anarchico e internazionale. 1872-1932(2003); Socialismo, anarchismo e sindacalismo rivoluzionario nel Veneto tra Otto e Novecento (2004); Intervista agli anarchici. Nico Berti,a cura di Mimmo Pucciarelli (2009); Il comunismo anarchico, in L'età del comunismo sovietico. Europa 1900-1945,a cura di P.P. Poggio (2010, pp. 61-76); Libertà senza rivoluzione: l'anarchismo fra la sconfitta del comunismo e la vittoria del capitalismo (2012); Contro la storia. Cinquant'anni di anarchismo in Italia. 1962-2012 (2016); Crisi della civiltà liberale e destino dell’Occidentenella coscienza europea fra le due guerre(2021);Il principe e l’anarchia.Per una lettura anarchica di machiavelli alla luce di una lettura machiavelliana dell'anarchismo (2023).

Perché il fascismo, irrimediabilmente morto nella primavera del 1945, continua ad alimentare l’antifascismo? Un fantasma, questo del fascismo, che tiene in vita pure l’immaginario malato di partiti, movimenti, gruppi e individui neofascisti, più o meno allucinati e privi di ogni aggancio con la realtà, che credono veramente alla possibilità di una sua rinascita. E vivono con fervore nostalgico questa assurda speranza, generando nel campo opposto paure del tutto infondate. Il fascismo, invece, per fortuna, è morto.

Per cercare di rispondere alla domanda del paradosso di un fascismo morto che alimenta un antifascismo vivo, bisogna chiamare in causa il modello classico del totalitarismo, rapportando ad esso i termini specifici del problema. In Italia, annotava Ennio Flaiano, «i fascisti si dividono in due categorie: i fascisti e gli antifascisti». Naturalmente il fascismo degli antifascisti, al quale alludeva lo scrittore abruzzese, era quello dei comunisti, ovvero quel fascismo il cui tasso di totalitarismo risultava molto più alto rispetto a quello rinvenibile nel fascismo storico e istituzionale (è inutile qui precisare che il giudizio di Flaiano non coinvolgeva l’antifascismo liberale e democratico).

A fronte della libertà, fascismo e comunismo sono due fenomeni speculari, la cui indubitabile somiglianza ontologica rende pressoché insignificante la loro contrapposizione fattuale perché il fatto che si siano combattuti a morte non significa che non fossero simili. Convergono rispetto al modello totalitario, avendo prodotto regimi analoghi – dittatura politica, mimetismo fra Stato e partito, monopolio statale di tutti i mezzi di comunicazione, controllo capillare sulla società civile, radicale avversione ad ogni forma di individualismo –, ma divergono per quanto attiene alla loro natura. Il comunismo ha una valenza universale ed è impiantato su un unico verbo ideologico, il marxismo; il fascismo ha una valenza particolare ed è attraversato da componenti politico-culturali che gli conferiscono un carattere proteiforme (si pensi alle sue varianti: Falange in Spagna, Guardie di ferro in Romania, Croci frecciate in Ungheria, Rexismo in Belgio, Unione fascista in Gran Bretagna, partito degli Ustascia in Croazia). L’universalismo comunista trascende la parabola storica del trentennio 1915-1945 segnata dalle due guerre mondiali, il particolarismo fascista, invece, nasce, vive e muore entro questo tempo. La valenza universale del comunismo è dovuta all’esito dittatoriale del golpismo bolscevico dell’ottobre del ’17, sancito poi dalla vittoria dell’Urss nella Seconda guerra mondiale.

Dopo la fine del conflitto si affermò la versione dei vincitori quale inevitabile compromesso della guerra fredda tra soggetti incompatibili: da una parte la dittatura comunista, dall’altra i regimi liberaldemocratici. Nacque così la “verità ideologica” del secondo dopoguerra sostanzialmente accettata e fatta propria dall’opinione pubblica progressista europea. Essa si può riassumere in questo modo: il fascismo si caratterizza quale reazione che guarda all’indietro, il comunismo come una rivoluzione che guarda in avanti: alla distopia dell’uno corrisponde l’utopia dell’altro. Ancora: il comunismo viene visto come un movimento appartenente a pieno titolo all’area culturale progressista, ovvero a quella concezione del mondo che principia dall’illuminismo, fonte primaria dei caratteri fondamentali della modernità: razionalismo, diritti naturali, universalismo, unità del genere umano, internazionalismo, individualismo, libertà. Il fascismo, al contrario, è giudicato un sottoprodotto appartenente all’area culturale che principia dal romanticismo: irrazionalismo, vitalismo, misticismo, primato del sentimento sulla ragione, nazionalismo, particolarismo storico, tradizionalismo, gerarchia, autorità. Risulta perciò anti-universalista, anti-egualitario, razzista, antidemocratico.

Si spiega quindi perché al comunismo venga accordato un credito intellettuale, culturale e morale del tutto assente nel fascismo. Grazie a questa considerazione, passano in secondo piano i milioni di morti prodotti dai vari regimi comunisti (Russia, Cina, Cuba, Cambogia), il cui risultato effettivo, alla fine, è sempre stato lo stesso: vale a dire il dispotismo e la miseria. I crimini dei regimi comunisti godono di un giustificazionismo storico, secondo cui al progetto iniziale sarebbe seguito un dérapage, ovvero una prassi perversa che ha completamente stravolto il messaggio originario: i loro orrori sono giudicati errori, incidenti di percorso, cattiva applicazione. In conclusione, ogni amante del progresso può, anzi deve, proclamarsi antifascista, ma non può dirsi allo stesso tempo e in linea di principio anticomunista, perché tale dichiarazione potrebbe adombrare una sua qualche inconfessabile simpatia reazionaria.

In Italia questo modo di pensare è particolarmente forte e coinvolgente, qualora si consideri l’importante ruolo svolto dai comunisti nella lotta mortale nel liberare l’Italia dal mostro nazifascista (pare superfluo ricordare che si tratta di un ruolo politico, non certo militare, perché lo sanno anche i sassi che l’Italia è stata liberata dagli anglo-americani). Ciò che conta qui sottolineare è il criterio del fascismo eterno (Umberto Eco), elevato ad archetipo del male assoluto. Esso diventa una categoria dello spirito, una sorta di principio metafisico. La sostanziale identificazione del fascismo con tutto ciò che la storia continuamente produce di negativo – suprematismo, autoritarismo, maschilismo, violenza, terrorismo, prevaricazione, razzismo, sovranismo, populismo – proietta l’antifascismo nel campo senza tempo di alfiere del bene eterno. Esso è l’ultima versione aggiornata del politicamente corretto, configura la prassi politica onnicomprensiva scientificamente inservibile e la sua perenne attualità, una password, valevole per ogni circostanza, anche la più futile e stupida. Lo conferma il Bella ciao del festival di Sanremo.

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