Giorgio Poli ha insegnato materie letterarie nelle scuole superiori. Dal 1990 al 2019 è stato Presidente della Giuria del Premio nazionale di poesia "Pietro Borgognoni". Saggista e poeta, per il suo impegno nell'ambito della cultura e della scuola ha ricevuto nel 1993 dal Presidente della Repubblica il titolo di Cavaliere al Merito.
Rileggere Dante in occasione del VII centenario della morte (1265/1321)
Si tratta, come molti sanno, di uno degli episodi più noti e famosi dell’Inferno, anzi dell’intera Divina Commedia, su cui sono state scritte pagine su pagine di critica letteraria, talché sembrerebbe impossibile scrivere qualcosa di nuovo o perlomeno di più. Raccolgo la sfida promettendo, per quanto possibile, di non ribadire valutazioni e considerazioni già note e scontate.
È infatti mia intenzione affrontare soprattutto alcuni nodi e snodi fondamentali del testo in esame: la struttura, la funzione del tempo, il sogno e la soluzione finale. Devo però preliminarmente andare sul titolo, spiegando il senso che assegno alla parola “eroe”, perché potrebbe sorprendere qualcuno dei lettori. L’eroe nasce con l’epica, poi si trasferisce nella narrativa che di essa è filiazione, ad indicare un personaggio importante perlopiù con connotazioni positive; solo nel Novecento gli “eroi” lasceranno il posto agli “anti-eroi”, cioè a personaggi perdenti. Riproporre il termine per personaggi infernali significa mettere in luce alcuni personaggi della prima cantica che emergono tra gli altri e che, per quanto colpevoli e dannati, non sono privi di umanità e anche di un qualche valore o affetto che suscitano il rispetto se non l’ammirazione del pellegrino. Tali sono, a mio avviso, Francesca da Rimini, Farinata, Pier della Vigna, Ulisse e il nostro conte Ugolino. Sono anche accomunati da una morte violenta (salvo il capo ghibellino fiorentino), che giustifica l’uso dell’aggettivo “tragico”.
Dante struttura l’episodio dividendolo in due parti: troviamo la prima nel c. XXXII (vv. 124-139), la seconda nel XXXIII (vv. 1-90). Questa suddivisione concerne la struttura esterna, ma l’analisi critica porta a rilevare una struttura interna nel secondo canto (vv. 1-21: autopresentazione del personaggio con il noto antefatto; vv. 22-78: prigionia e morte per fame del conte e dei quattro “figli”; 79-90: invettiva dantesca contro Pisa). Ci si può chiedere – e io me lo sono chiesto – perché l’autore non ha concentrato l’episodio in un unico canto. Direi che hanno prevalso criteri di equilibrio: la lunghezza dei canti danteschi si colloca perlopiù nella forbice dei 140-150 versi, mentre l’episodio del conte ne conta solo 105 (15 nel XXXII, 90 nel XXXIII). Ma non va trascurato il criterio artistico: i primi 15 vv. fungono da prologo; la scena dei due dannati attaccati nel ghiaccio di Cocito ha dell’orrido ma anche del grottesco; lo stacco tra i due canti è, usando un linguaggio cinematografico, un passaggio dal campo lungo al primo piano e introduce ad un brusco cambiamento di tono, legato al fatto che se prima era stato il personaggio Dante a interpellare il dannato, ora è questo che racconta, nonostante il “disperato dolor”, la sua straziante vicenda. All’orrido si aggiungerà così l’elemento patetico-tragico.
La funzione del tempo è fondamentale perché struttura dall’interno il racconto di Ugolino e ne garantisce la tenuta, scandendo il progressivo crescere della tensione drammatica tra i personaggi rinchiusi nella torre della Fame e la presa di coscienza del destino di morte che li aspetta. Dopo alcuni mesi di prigionia passati senza eventi, il tempo precipita: in otto giorni si passa dal primo giorno di digiuno a quello che stronca il genitore dopo aver stroncato i “figli”, ovviamente più deboli e meno resistenti ai morsi della fame. Il conte resta sempre chiuso in un impotente mutismo, che esploderà in grida forsennate solo alla fine, quando si mette a brancolare su corpi privi di vita. Si può osservare che al mutismo in qualche modo giustificato di Ugolino corrisponde al di fuori della sua narrazione il mutismo di Dante che, a differenza di altri incontri, si guarda bene dall’interrompere il racconto del dannato.
La vicenda storica del conte Ugolino della Gherardesca e dell’arcivescovo Ruggeri degli Ubaldini è nota. Va collocata sullo sfondo della conflittualità politica che caratterizzava le città comunali dell’Italia centro-settentrionale. Ugolino, signore ghibellino di Pisa, era un capo fazione spregiudicato, pronto ad allearsi con elementi guelfi imparentati con lui pur di mantenere il potere; ugualmente spregiudicati erano i suoi avversari guidati dal suddetto arcivescovo. È nel nono cerchio come traditore della parte ghibellina (questo però è difficile considerarlo un peccato vero e proprio, ma probabilmente ai tempi di Dante la valutazione era diversa), l’arcivescovo è lì come traditore del conte. Nell’episodio la colpa e la pena non esistono per il protagonista, che non le avverte, a differenza di altri dannati. La pena, tremenda, l’ha subita nel mondo terreno, ora è tenuto vivo solo dall’odio eterno per il nemico cui rode il cranio, Nella torre della fame non ha potuto mangiare, ora si rifà sul malcapitato; costui ha negato i pasti al nemico politico e ai “figli”, ora per un contrappasso perfetto sarà il pasto eterno del suo avversario.
Dante ha rispettato la realtà storica? Sostanzialmente sì. Il lettore attento avrà notato che parlando dei figli del conte ho virgolettato questa parola. Infatti solo due dei quattro erano figli di Ugolino (Gaddo e Uguccione), mentre gli altri due (Anselmuccio e Nino il Brigata) erano nipoti. Quindi i figli erano già adulti e “l’età novella” riguardava gli altri. Dante ha esercitato i diritti dell’immaginazione poetica che, manipolando alcuni dati, gli ha permesso di semplificare il suo discorso accentuando il potenziale patetico-tragico dell’episodio. Ovvio che accanirsi su dei ragazzi è più grave che farlo sugli adulti meno innocenti di loro. Sempre a questo proposito funge il comportamento “corale” dei figli, ma soprattutto l’immaginazione dantesca è intervenuta potentemente nel ricostruire lo sviluppo incalzante degli eventi nella torre, primo tra tutti il rapporto intensamente drammatico del padre con i “figli”.
Veniamo al sogno premonitore delle future sventure per tutta la famiglia prigioniera. Una battuta di caccia al lupo guidata dall’arcivescovo accompagnato dagli esponenti delle famiglie nemiche del conte. In tre rapide terzine (quella centrale sembra dominata da un ritmo ternario) tutto viene detto: lupo e lupicini vengono raggiunti e sbranati dalle cagne dei nobili cacciatori. Se l’intero episodio di cui sto discutendo va considerato, com’è giusto, un capolavoro, questo sogno è un capolavoro nel capolavoro. In esso il dato figurativo, di una straordinaria e dinamica evidenza, si salda strettamente al dato figurale, cioè al facile riferimento al tragico destino del sognatore. Proprio per questo aspetto si legge “lupo” non “lupa”, come ci si potrebbe aspettare, visto che in natura è la femmina che si occupa della prole. Ma qui ci sono altre due osservazioni importanti da fare. Credo che in questo passo troviamo la prima e unica volta che il termine “lupo” sia usato nella Commedia senza una connotazione negativa. D’altra parte il poeta non poteva usare il genere femminile del lupo, perché non sarebbe scattata la spontanea identificazione con l’uomo, ma soprattutto perché la lupa non gode di buona considerazione sin dagli esordi dell’opera in cui è una delle tre fiere che ostacolano il cammino di Dante verso la salvezza. Assegnandole questa funzione negativa, Dante ha dovuto dimenticare la leggenda della fondazione di Roma (la cui storia è praticamene per lui storia sacra, come si evince dal canto VI del Paradiso), che all’origine aveva avuto un infante da essa allattato. Sono pienamente convinto che questo sia una dei due sogni più belli della letteratura italiana; l’altro, più articolato, è quello di don Rodrigo nei Promessi sposi manzoniani. Qui il personaggio ha la visione della prossima punizione di una colpa reale rimossa dalla coscienza, nel caso del conte c’è una punizione violenta e ingiusta per una colpa difficilmente identificabile, che per di più coinvolge altri esseri estranei. Ciò che accomuna i due sognatori è la paura, il timore della prossima, ormai certa, rovina. È interessante notare infine che questi due sogni così diversi sono collocati nella medesima posizione delle rispettive opere (XXXIII è sia il numero del canto dantesco che del capitolo manzoniano).
Ora siamo all’epilogo (della vicenda del conte, non dell’episodio che comprende anche l’invettiva di Dante): “Poscia più che ‘l dolor, poté il digiuno”, verso incisivo, con una forte risonanza fonico-ritmica grazie alla cesura che divide i due emistichi, segnalando un punto di rottura, una svolta che consiste nel passaggio dal dolore agli effetti mortali del digiuno. È un verso a maiore e, come tale, richiama l’incipit del canto (“La bocca sollevò dal fiero pasto“), che ha quasi la stessa struttura prosodica. L’interpretazione più semplice, più naturale direi, è quella per cui il personaggio muore per il prolungato digiuno. Questa interpretazione, da me più sopra anticipata, accomuna i primi commentatori del poema ed è maggioritaria presso quelli moderni, eppure critici autorevoli hanno optato per la soluzione antropofagica (o tecnofagica, come talvolta si dice in maniera forse più precisa), con la conseguente accentuazione dell’orrore.
Secondo me esistono motivi decisivi per scartare questa interpretazione, fondata sulla presunta reticenza del poeta. In primo luogo, se Dante avesse pensato a tale conclusione non poteva non farne esplicita menzione. Come poteva pensare che bastasse una vaga allusione? Poi c’è la questione di una seppur minima coerenza psicologica di Ugolino. Per quanto fosse mentalmente alterato perché avrebbe dovuto accanirsi su carni parentali dopo che le aveva rifiutate vive? Su un piano di ordine pratico, poi: come si può mangiare carni crude di defunti in via di putrefazione (mi risulta che i cannibali le cuociono), che per giunta gli avrebbero assicurato tempi di sopravvivenza decisamente brevi? Ma decisivo mi pare il motivo estetico: una soluzione antropofagica per la sua bestialità annienterebbe o quanto meno ridurrebbe lo spessore umano e tragico di un personaggio che agli occhi di Dante ha subìto una ingiusta e disumana sorte. Aggiungo che il dolore da lui provato sulla terra – che ritroviamo ben tre volte nel testo (vv. 5-58-75) a sottolinearne il rilievo tematico – non riguarda la sua sorte ma quella dei “figli” e che questo dolore si proietta nell’eternità. Questo sentimento agli occhi di Dante e del lettore lo riscatta almeno parzialmente dalle ombre che gravano sulla sua figura. Eppure la tesi rifiutata, che, ripeto, non ha precisi riscontri testuali, qualche freccia nella faretra ce l’ha. Si può citare, ad esempio, il verso 58: “Ambo le mani per il dolor mi morsi”; gesto disperato che trae in inganno i figli. O il rilievo che ha nel testo il motivo del cibo, prima concesso e poi negato.
Sennonché una lettura attenta del brano non può non convincerci che il dolore, la disperazione impotente annullano nel conte il desiderio di mangiare, e che non aveva senso il soddisfarlo dopo che i suoi amati “figli” erano morti. Ma ormai la questione si può considerare chiusa da quando una ventina di anni fa Francesco Mallegni, direttore del laboratorio di paleontologia umana dell’Università di Pisa, esaminando i resti di cinque individui conservati nella chiesa di San francesco e provenienti dalla cappella gentilizia dei Della Gherardesca, li ha identificati con quelli di Ugolino e dei suoi familiari smentendo così in maniera definitiva la tesi tecnofagica.
Ora bisogna prendere in considerazione l’invettiva biblico-apocalittica che conclude l’episodio. Espressione di uno sdegno troppo a lungo trattenuto, è pronunciata dal Dante autore non dal Dante personaggio. Questa non è una differenza di poco conto perché l’autore ha un’indubbia superiorità in termini di autorevolezza sul personaggio. Questo è stato muto, come ho già anticipato durante il racconto di Ugolino, mentre quello parla con voce spiegata e veemente. “Ahi, Pisa, vituperio de le genti / del bel paese dove ‘l sì suona”: sono i primi due versi che saranno seguiti dall’auspicio dell’annegamento generale dei Pisani. C’è da chiedersi perché il poeta se la prenda con l’intera città invece che con Ruggieri e le famiglie pisane impegnate nella caccia al “lupo ghibellino”. Mi pare certo che Dante, assecondando la mentalità medioevale, chiami in causa l’intera comunità cittadina responsabile di aver appoggiato o tollerato o ignorato lo scempio avvenuto nella torre della Fame, quindi anch’essa è colpevole e meritevole di una condanna e di una pena straordinarie. Non è escluso che qui compaia l’avversione del guelfo fiorentino nei confronti della ghibellina Pisa, ma lo direi un sospetto sostanzialmente infondato, perché all’altezza temporale della composizione del canto il guelfismo di Dante era presumibilmente ormai evaporato.
Nei versi successivi il poeta dettaglia esplicitamente il suo giudizio: se il conte Ugolino poteva essere considerato un traditore (ma si fa capire che la cosa è lontana dalla certezza), si poteva punire lui e al limite eliminarlo, ma i “figli” non dovevano scontare la “colpa” del padre. Proviamo ora a metterci per un attimo nei panni dei nemici del conte o meglio nella loro mente sicuramente agitata: «Ugolino è un nemico potente, temibile e irriducibile, finché vive nessuno di noi sarà al sicuro. Abbiamo già provato a mandarlo in esilio, ora è meglio eliminarlo. E i “figli” li mandiamo liberi col rischio che qualcuno di essi rivendichi non solo la sua eredità politica, ma progetti anche di vendicarlo?». L’alternativa al rischio era la spietatezza. Aver scelto questa, macchiandosi di una colpa imperdonabile, li condanna umanamente, civilmente e moralmente. Ruggeri paga per tutti all’Inferno. L’invettiva biblica-apocalittica dell’autore della Commedia, che parrebbe eccessiva (e oggettivamente lo è), doveva essere all’altezza di questa colpa.
Bibliografia essenziale
Dante. Tutte le opere, Sansoni, Firenze 1965.
Dante Alighieri, Commedia, a cura di E.Pasquini e A.Quaglio, Garzanti, Milano 1987.
Giulio Ferroni, L’Italia di Dante, La Nave di Teseo, Milano 2019.