Elisa Pareo ha conseguito la laurea specialistica in Storia e civiltà presso l’Università di Pisa con tesi sull’esilio francese del partito comunista italiano e l’adozione del terrorismo urbano. Ha svolto Servizio civile universale presso l’Istituto Alcide Cervi e frequenta la Scuola di Archivistica, paleografia e diplomatica dell’Archivio di Stato di Parma.
Recensione a
D. Breschi, Quale democrazia per la Repubblica? Culture politiche nell’Italia della transizione 1943-1946
Luni Editrice, Milano 2020, pp. 320, €24,00.
Danilo Breschi, docente di Storia delle dottrine politiche presso l’università degli Studi internazionali di Roma, arricchisce con questo volume, edito nella collana Contemporanea di Luni Editrice, i propri studi sulle idee e le culture politiche del lungo Novecento italiano, soffermandosi sulla fase di transizione dal fascismo alla Repubblica, identificata quale momento di democratic State building del nostro Paese.
L’autore avverte sin dall’introduzione che il volume non intende essere la storia della linea politica dei partiti della Costituente e neppure una ricognizione dei valori alla base della Costituzione, pur offrendo molti spunti in questo senso, ma una storia intellettuale, una ricostruzione di questioni e posizioni che informarono le famiglie politiche italiane nel momento potenzialmente più ricco per lo Stato nascente. Con questo proposito, passa in rassegna scritti e discorsi di figure tra le più eminenti del panorama politico-intellettuale della prima Repubblica, personalità aderenti ad un partito che deve loro parte della propria teoria politica: Benedetto Croce, Luigi Einaudi, Guido Gonnella, Mario Pannunzio, Giorgio La Pira, Norberto Bobbio, Guglielmo Giannini, Franco Rodano… solo per fare qualche nome. Le fonti utilizzate sono dunque pubblicazioni e articoli editi tra il crollo del fascismo e la vigilia delle elezioni per l’Assemblea costituente, termine ante quem non solo per l’abbondante storiografia esistente, ma soprattutto perché dall’estate del 1946 «l’aspetto più squisitamente ed esclusivamente ideologico viene stemperato e piegato alle esigenze di compromesso politico che un patto costituente necessariamente comporta» (p. 14). La struttura del libro si articola così sviluppando temi quali i miti di riferimento, le ipotesi istituzionali, le posizioni espresse in relazione al fascismo, ai concetti di rivoluzione e di classe, sui quali Breschi fa dialogare gli intellettuali chiamati in causa, che sembrano effettivamente mettere in scena un dibattito animato e sentito.
Il panorama che ne vien fuori evidenzia la percezione, praticamente in tutti gli schieramenti politici, che la democrazia liberale non sia etica, ovvero che il recupero del liberalismo politico ottocentesco debba ampliarsi alla presa in carico da parte dello Stato del benessere economico-sociale del cittadino. In altre parole, il sistema prefascista è ritenuto inadeguato a fornire la base per una democrazia moderna, in una parola sociale: come con un nodo venuto al pettine, il mondo politico italiano si confronta con il «dilemma fondamentale di ogni liberaldemocrazia contemporanea: far quadrare il cerchio fra benessere economico, coesione sociale e libertà politica» (p. 95). Che le vie indicate siano una dichiarazione di intenti per garantire la coesione sociale (ambito liberale), una maggiore attenzione in politica alla dignità della persona (sinistra democristiana) o un più o meno radicale livellamento proprietario, era ormai chiaro che anche per l’Italia era l’ora della democrazia di massa.
Da parte comunista, il mito della rivoluzione restò per anni un fattore di mobilitazione, serbante il potenziale insurrezionale della Resistenza, nonostante fosse ormai chiara ai più acuti osservatori la via legalitaria imboccata dal Pci; così com’era chiara la subordinazione politico-elettorale dei socialisti ai cugini di ispirazione sovietica, mentre il partito di Nenni è dipinto ancora propositivo dal punto di vista politico-ideale. Nel frattempo si consumava l’esperienza politica del Partito d’azione, il più etico e il più combattivo, che, tramite l’ambizione alla formazione di un cittadino cosciente e moralmente formato, non riuscì a sopravvivere allo scontro elettorale, lasciando tuttavia una forte impronta intellettuale. A destra si muovevano invece il partito liberale, impegnato senza successo nel tentativo di sganciarsi dalla propria tradizione prefascista, e il partito dell’Uomo Qualunque, antipolitico, che concepiva lo Stato come un male necessario e, presentandosi antifascista quanto anticomunista, non riusciva ad evitare derive neofasciste, quantomeno alla base.
Tra queste molteplici spinte, l’edificazione della democrazia italiana si fondò e realizzò tramite l’alleanza tra mondo cattolico e liberalismo, tramite quel centrismo che De Gasperi pervenne a rappresentare, conquistando al proprio partito, oltre che l’appoggio della maggiore potenza capitalista, una base sociale ampia e trasversale. L’antifascismo in chiave antitotalitaria, letto dunque in funzione anticomunista, permise alla Democrazia cristiana di sorgere dalle ceneri del fascismo come forza politica veramente nuova, che potesse permettere a tutti l’accesso alla piccola proprietà, eliminando il proletariato e così le ragioni per una lotta di classe.
Tuttavia, se l’agone politico degli anni successivi ebbe un indiscusso vincitore, la composizione del magmatico sentire politico e delle sfumature economico-sociali dell’era fondativa della Repubblica avvenne infine tramite una Costituzione politica. Infatti la legge fondativa della nostra Repubblica, con la sua elaborazione contro un nemico dichiarato, il fascismo (e in parte anche la monarchia), e soprattutto con l’esplicazione dei criteri ideali alla base delle norme, presenta secondo una terminologia schmittiana un impianto giuridico orientato (pp. 288-289), prodotto dall’ardua ricerca della terza via, tra libertà e giustizia sociale.
Risiedono qui per Breschi, in una genesi democratica tanto debitrice a idee politiche maturate nella guerra civile europea, sui binomi irrisolti fascismo/antifascismo, comunismo/anticomunismo, le anomalie della democrazia italiana nel quadro delle liberaldemocrazie occidentali, che avrebbero pesato in seguito sullo svolgersi della Repubblica, con la persistenza «di un’attitudine anti-istituzionale piuttosto ampia e radicata» (p. 311). Si evidenzia infine l’impossibilità in sede storiografica di archiviare queste «anomalie, o peculiarità, di buona parte della nostra cultura politica come semplici alternative alla “via maestra” della democrazia liberale di stampo anglosassone» (p. 313). Viene da chiedersi a questo punto se il termine anomalie debba intendersi con il senso di caratteri discordanti da un’elaborazione ideale, o, piuttosto, come peculiarità, adattamenti di una società nazionale ad un sistema in fieri. Ad ogni modo, l’ampiezza e la complessità del tema messo in luce dimostrano che l’indagine sulle caratteristiche della democrazia italiana deve continuare, accrescendo la consapevolezza del pensare (e dell’agire) politico quale prodotto storico, radicato nella combinazione delle spinte che lo hanno mosso come nelle scelte e circostanze che ne hanno condizionato lo svolgimento.