Alessandro Della Casa (1983) è assegnista presso il Dipartimento di Filosofia e Scienze dell'Educazione dell'Università degli Studi di Torino, nonché docente a contratto di Storia del pensiero politico presso l’Università degli Studi della Tuscia. Ha conseguito l’abilitazione a professore di II fascia in Storia delle dottrine e delle istituzioni politiche (2022-2033). È autore di numerosi articoli e delle seguenti monografie: Contro la tirannia della maggioranza. La democrazia secondo John Stuart Mill(2009); L’equilibrio liberale. Storia, pluralismo e libertà in Isaiah Berlin (2014); Isaiah Berlin. La vita e il pensiero (2018); La dinamo e il fascio. Volt, l’ideologo del futurismo reazionario (Sette Città, 2022). Nel 2022 ha ricevuto il Premio Isaiah Berlin - Monografie e il Premio Dino Garrone.

Recensione a: F.J. Turner, La frontiera nella storia americana, il Mulino, Bologna 2024, pp. 448, € 18,00.

«Fino ad oggi la storia americana è stata, in larga misura, la storia della colonizzazione del Grande Ovest. L’esistenza di una superficie di terre libere e aperte alla conquista, la sua retrocessione continua e l’avanzata dei coloni a occidente, spiegano lo sviluppo della nazione americana». Le parole con cui, in The Significance of the Frontier in American History (ora opportunamente ripubblicato, insieme ad altri dodici saggi sul tema, in F.J. Turner, La frontiera nella storia americana, il Mulino, Bologna 2024), Frederick J. Turner commentava nel 1893 la sospensione da parte dell’ufficio del censimento degli Stati Uniti del monitoraggio della migrazione verso ovest, essendo ormai esaurita l’area lottizzabile e con essa la «frontiera di colonizzazione provvisoria», erano destinate a produrre una rivoluzione tanto nella storiografia americana quanto nell’autopercezione degli statunitensi.

La germ theory allora prevalente, e ribadita anche dal maestro di Turner, Herbert Baxter Adams, formatosi a Heidelberg, intendeva rinsaldare i legami tra le due sponde dell’Atlantico: il sistema politico e lo spirito nazionale americani erano la fioritura del “germe” germanico, trapiantato dapprima in Inghilterra e, infine, nelle regioni del New England. Per Turner, midwestern influenzato dalle teorie evoluzionistiche, viceversa, le istituzioni e il carattere degli americani erano l’esito peculiare delle strategie di adattamento creativo che l’essere umano – più che l’“anglosassone” o l’“europeo” – aveva dovuto attuare nei differenti ambienti nei quali si era trovato immerso proseguendo, per «una forza espansiva connaturata», la marcia verso Occidente.

Mentre, infatti, sulla costa orientale si diversificavano e si specializzavano le funzioni degli organi di governo e si sviluppava un’economia industriale avanzata, il «processo evolutivo» ricominciava ogni volta lungo la «frontiera mobile», il «punto d’incontro fra barbarie e civiltà». Per ricreare la “civiltà”, il colono europeo aveva dovuto tornare “barbaro”, assumendo gli strumenti e i costumi degli abitanti originari di quella «grande distesa», ben meno «solitaria» di quanto Turner avrebbe voluto credere. E il mutamento diseguale degli orizzonti, nei molteplici punti della colonizzazione, era stato accompagnato da una nuova successione, differenziata da zona a zona, degli stadi che avevano nuovamente condotto dalla caccia e dalla pesca al commercio (primo solvente della «società indiana») e all’industria.

Nei nuovi territori si riproducevano le condizioni sociali già presenti sull’Atlantico, ma conservando il marchio delle esperienze peculiari della frontiera. Difatti, mentre quel presunto “stato di natura” si allontanava dall’Est – e più di quanto l’Est avesse voluto – era fuoriuscito da «un nuovo ordine, una nuova misura dell’uomo: l’americanismo». La frontiera era stato il «crogiuolo» in cui si erano fuse le identità originarie dei pionieri; e le loro necessità di approvvigionamento avevano favorito il consolidamento del governo federale. Con l’assottigliarsi dei territori colonizzabili, lo spirito dei frontiersmen aveva finito per modellare l’intera identità statunitense – pragmatica, rude ed esuberante, materialista e assieme idealista –, incarnandosi in alcune delle figure più eminenti dell’amministrazione e dell’economia (Andrew Jackson, Abraham Lincoln, e poi, benché solo adottivi del West, Andrew Carnegie e John D. Rockefeller). Era stata la frontiera a generare il «nazionalismo», che pure avrebbe contribuito alla divaricazione degli interessi sezionali all’interno degli Stati occidentali. Ma essa era stata soprattutto l’ispiratrice della versione americana di democrazia, da Turner, come già da Tocqueville, intesa quale connubio tra l’«individualismo», amante della libertà, dell’autogoverno e insofferente ai controlli amministrativi, e la tendenza a un’uguaglianza non livellatrice, favorita dalle ingenti disponibilità di risorse. La scomparsa della frontiera, un argine che si era trasformato in un invito a oltrepassarlo (come notava Mauro Calamandrei), segnava allora la fine del  «primo periodo della storia americana», ma non dell’«energia americana», che avrebbe chiesto «continuamente un campo più vasto per esercitarsi».

Già tre anni dopo, nel saggio su Il problema del West, lo storico affermava appunto che «le richieste di una politica estera energica e vigorosa, di un canale interoceanico, di un risveglio della nostra potenza sui mari, e dell’estensione dell’influenza americana a isole remote e paesi contigui» erano «indici ben precisi» della prosecuzione del movimento espansivo innato nel carattere statunitense. Esso, non potendo più avvalersi della valvola di sfogo delle terre libere, si sarebbe altrimenti incanalato nei «solchi dell’agitazione» interna, come in quegli anni lasciavano intendere la comparsa del fenomeno populista (poi assorbito in larga parte dai Democratici) e, più in generale, la preoccupazione per le conseguenze della concentrazione dei capitali da parte delle corporations. Il rischio paventato era che il venire meno delle possibilità di mobilità sociale, un tempo offerte dalla frontiera, avrebbe intaccato i pilastri e gli ideali della democrazia.

Si trattava, sostanzialmente, di indicare una nuova «linea dell’orizzonte» – come Turner, citando Rudyard Kipling, scriveva in un articolo del 1903 –, altre mete da raggiungere e superare. Per un verso, ponendo la questione dei rapporti tra democrazia e impero, la «nave dello Stato» avrebbe dovuto mirare agli spazi commerciali aperti dalla vittoria militare sulla Spagna, che comprendevano tanto i Caraibi e l’America Latina quanto l’Asia, un Ovest al di là del Pacifico, e alla rilevanza diplomatica che sfidava la storica supremazia europea. Per altro verso, invece, la frontiera di cui appropriarsi era quella sociale e culturale: l’impiego della scienza medica, l’ampliamento dell’«orizzonte intellettuale del popolo» attraverso le scuole e le università, la ricerca di assetti più armoniosi tra il modo di vita democratico e gli sviluppi del capitalismo. «Proseguiamo saldamente nel nostro atteggiamento di fede e di coraggio e di zelo creativo. Sogniamo come sognarono i nostri padri e rendiamo realtà i nostri sogni», incitava Turner nel giugno 1914.

Segnala Tiziano Bonazzi, nella postfazione al volume che riproduce l’originale raccolta uscita negli Stati Uniti nel 1920, che, dopo essere stata assunta come monumento storiografico, la lettura turneriana iniziò a essere oggetto di critiche sempre più veementi. Nel secondo Novecento la fortuna arrise già più alla frontier thesis che non alla sectional thesis – di cui vi sono varie tracce in alcuni dei saggi più tardi –, che metteva in dubbio il carattere unitario della nazione, sommamente valutato dagli storici del “consenso”. E per avere un indizio dell’influenza di cui ancora godeva la tesi, si pensi all’invito di J.F. Kennedy, nel discorso di accettazione della candidatura alla presidenza nel 1960, a farsi pionieri della «nuova frontiera» nelle «aree inesplorate della scienza e dello spazio, degli irrisolti problemi della pace e della guerra, degli invitti problemi dell’ignoranza e del pregiudizio, delle inesplorate questioni della povertà e dell’eccedenza». Successivamente, però, l’intero impianto di Turner sarebbe stato contestato dai revisionist historians della New Left a causa dell’oblio a cui la narrazione aveva consegnato le frontierswomen, della parziale rimozione delle popolazioni native e del loro eccidio, dello scarso peso assegnato agli afroamericani e alle loro condizioni, con la retrocessione della schiavitù e della sua abolizione a episodi secondari della vicenda americana. La tesi della frontiera, prosegue Bonazzi, «divenne non solo inutile, ma espressione di tutto ciò contro cui la nuova storiografia si batteva».

Nondimeno, pare innegabile che, benché in recessione e ampiamente problematizzato il fascino per l’epopea del West, l’idealismo sotteso alla tesi di Turner sappia ancora cogliere elementi utili per comprendere le forze che hanno informato e continuano, forse marginalmente, a informare il carattere statunitense. Ed è lecito pensare che riscoprire l’“atteggiamento di fede e di coraggio e di zelo creativo” potrebbe tornare ancora utile all’America odierna: in parte desiderosa di soddisfare una (probabilmente impraticabile) vocazione neoisolazionista e propensa a considerare la frontiera come muro dietro cui barricarsi, in parte preda di un esorbitante scettiscismo, nei fatti autodistruttivo, nei riguardi del proprio eccezionalismo e delle proprie potenzialità; complessivamente disunita e insoddisfatta di sé. Anche sulla capacità di individuare ancora una “linea dell’orizzonte” condivisa, da spostare sempre più avanti ma mantenendo il contatto con quell’Europa da cui pure qualche “germe” proveniva, dipenderà il futuro degli Stati Uniti all’indomani delle prossime presidenziali. E non solo il loro.

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