Antonio Giovanni Pesce (1978) è laureato in Filosofia presso l’Università di Catania con una tesi su Giambattista Vico e la modernità. Nel 2007 si specializza nell’insegnamento secondario. Entrato nella scuola di dottorato del Dipartimento di Scienze Umane della Facoltà di Lettere e Filosofia di Catania, studia Pascal, Croce e Gentile, addottorandosi nel 2011 in Filosofia e storia delle idee. Insegna storia e filosofia nei licei.

Recensione a: N. Bobbio, Elogio della mitezza e altri scritti morali, Net, 2006, pp. 212, € 10,00.

C’è un luogo dello scritto Invito al colloquio[1] che apre Politica e cultura, in cui Norberto Bobbio, del quale quest’anno cade il ventennale dalla morte, indica lo scopo dell’agire dell’intellettuale e offre una definizione di cultura: «Il compito degli uomini di cultura è più che mai oggi quello di seminare dei dubbi, non già di raccoglier certezze. Di certezze – rivestite della fastosità del mito o edificate con la pietra dura del dogma – sono piene, rigurgitanti, le cronache della pseudocultura degli improvvisatori, dei dilettanti, dei propagandisti interessati. Cultura significa misura, ponderatezza, circospezione: valutare tutti gli argomenti prima di pronunciarsi, controllare tutte le testimonianze prima di decidere, e non pronunciarsi e non decidere mai a guisa di oracolo dal quale dipenda, in modo irrevocabile, una scelta perentoria e definitiva».

Questo atteggiamento di sobria riflessione e di pacata analisi Bobbio lo mostra non solo riflettendo sul ruolo pubblico dell’intellettuale, ma anche negli ultimi anni della sua vita, e perfino davanti a temi meno politici, che andava affrontando quando i lustri s’erano fatti tanti ed egli sentiva, probabilmente, di dover fare i conti con l’altra faccia dell’agire umano, quell’etica che era stata lo sfondo mai completamente emerso della sua riflessione sulla politica. Egli stesso lo scrive introducendo Elogio della mitezza (1994), che raccoglie gli scritti «estravaganti» della sua produzione: «[…] effettivamente in questi ultimi anni, avvertiti i primi morsi della vecchiaia, mi sono sprofondato e in parte disperso nella riflessione sul problema del male nel mondo e nella storia, e ho allentato i miei legami col mondo della politica. Non è un caso, infatti, e forse è anche una premonizione, se alcuni anni or sono, invitato a partecipare a un ciclo di conferenze sulle virtù, abbia scelto la mitezza, che ho annoverato tra le virtù deboli, contrapposta alle virtù forti dell’uomo di stato, e ho definito “la più impolitica delle virtù”» (p. 2). Corrado Ocone aveva già notato[2] che, a partire da De senectute (1997) e Autobiografia (1997), la riflessione del Maestro torinese aveva preso una “curvatura etica”, parlando di forze che frenerebbe il degenerare delle istituzioni, ma interessante mi pare questa ammissione da parte di Bobbio di riflettere sul problema del «male nel mondo e nella storia», perché, oltre che temi di natura squisitamente metafisica, sono anche due grandi sfide, come egli stesso notava, all’uomo di (sola) fede e all’uomo di (sola) ragione. Ed è proprio come egli le affronta a mettere in evidenza la ‘debolezza’ – mi si perdoni, ma non trovo altro termine più evocativo – della sua speculazione: «Il problema del Male s’impone alla nostra attenzione con particolare forza in caso di eventi catastrofici, non importa se ne siano protagoniste la Natura o la Storia. Due sono, nella nostra memoria più recente, gli avvenimenti che hanno maggiormente sollecitato la discussione sul tema: Auschwitz e la caduta del muro di Berlino. Il primo ha rappresentato una sfida soprattutto per l’uomo di fede, il secondo soprattutto per l’uomo di ragione» (p. 183). Ma Bobbio non li mette sullo stesso piano, e qui è forse la parte più debole del suo ragionamento. Egli afferma che «[l]a fiducia nella ragione non è mai stata così assoluta come la fiducia nella provvidenza divina» (p. 185), e continua con parole accorate:

Non abbiamo mai avuto difficoltà ad ammettere che la ragione non è, ma diviene. Ora apprendiamo che non è, ma diviene, anche Dio, proiettato nella Storia. Quale differenza allora tra questo Dio che diviene nella Storia e la Ragione dei filosofi, o lo Spirito di Hegel? Dio, si legge ancora, ‘soffre’. Dio non è onnipotente, e per questo soffre. Se fosse onnipotente non avrebbe permesso Auschwitz. Non è più Dio che salva noi, siamo noi che dobbiamo salvare Dio? Non si sta affacciando all’orizzonte di una società in angustie una sorta di teologia debole, che si viene stranamente affiancando al cosiddetto “debolismo” filosofico? Quanto è breve il passo verso il rovesciamento radicale della visione tradizionale dell’universo, secondo cui Dio è il creatore e l’uomo è la creatura, nella visione umanistica altrettanto radicale secondo cui Dio è una creazione dell’uomo? Non più l’uomo della Bibbia fatto a immagine e somiglianza di Dio, ma questo nuovo Dio, che non è ma diviene, non più onnipotente ma impotente e fallibile, fatto a immagine e somiglianza dell’uomo?» (ibid.).

Non c’è dubbio che qui Bobbio sia sincero davanti al dolore e all’inquietudine che esso provoca, e forse si può anche notare un pizzico di nostalgia per un mondo dalle proposizioni più forti e un’acuta critica a quella teologia antropologizzante andata di moda nell’ultimo mezzo secolo, ma egli cade compiendo quel passo che diceva di non voler compiere, giacché chiedere conto a Dio della sua assenza, presunta o effettiva, in un determinato periodo della Storia è ancora avere fiducia, troppa fiducia in quella ragione della quale si dice di non confidare. Per l’uomo che ha anche fede non viene meno il compito di lasciarsi interrogare dalla ragione, e anzi è proprio per questo che è inquieto, perché vede ma non tutto comprende, ma la fede è la certezza che in questa valle di lacrime, in fin dei conti, egli non è mai solo, e che questo cammino periglioso avrà, infine, un porto sicuro. Laici e credenti non navigano su mari diversi, ma in modo diverso li attraversano. Se «in una visione laica della vita non esiste il Male assoluto» (p. 23), così è anche per una visione cristiana, perché il male non è mai originario bensì originato, e come tutto quello che ha origine, infine, avrà fine. Ma laici e credenti non dovrebbero neppure smettere di interrogarsi davanti al senso della giustizia su questa terra. Bobbio afferma che questa domanda non ha senso e scrive:

Le vicende della storia umana stanno a dimostrare, per chi le voglia osservare spregiudicatamente, esattamente il contrario: il tiranno Stalin muore nel suo letto, Anna Frank, immagine dell’innocenza, muore in un campo di sterminio. Dagli afflitti è sempre salita al cielo la domanda di Giobbe: “Perché?”. C’è una ragione per cui il malvagio si salvi e l’innocente si perda? Ha senso porsi la domanda, che pur tuttavia quel giorno ci turbò? Perché, all’ultimo momento, un ufficiale del seguito di Hitler spostò inconsapevolmente di qualche metro la borsa contenente la bomba che il colonnello von Stauffenberg aveva portato con sé per attentare alla vita di Hitler, e Hitler si salvò e non solo non morì ma poté compiere le sue efferate vendette? No, non ha alcun senso. Anche questa è una domanda senza risposta (p. 195).

Qui Bobbio si sbaglia, ma non ha mai negato di indugiare al pessimismo. Resta però il fatto che quella domanda va comunque posta e la risposta va comunque cercata: il laico perché, in virtù della ragione, non può escludere che non ci sia («Il filosofo è aperto al dubbio, è sempre in cammino; il porto cui arriva è soltanto una tappa di un viaggio senza fine, e occorre sempre tenersi pronti per salpare di nuovo», Verità e libertà, p. 146); il credente perché, in virtù della fede, sa che c’è e che, prima o poi, la incontrerà.

Su una cosa laici e credenti possono concordare, e cioè che il nostro vivere è fragile in un mondo fragile. Siamo cristalli in una cristalliera, e il male che ci portiamo dentro rompe noi e, con noi, anche l’altro con cui condividiamo il tempo e lo spazio. È per questo che Bobbio, tra le virtù, sceglie di concentrarsi sulla mitezza, che non è mansuetudine, perché non è una virtù dell’individuo, bensì è una virtù sociale. «La mansuetudine – scrive Bobbio – è una disposizione d’animo dell’individuo, che può essere apprezzata come virtù indipendente dal rapporto con gli altri. Il mansueto è l’uomo calmo, tranquillo, che non si adonta per un nonnulla, che vive e lascia vivere, e non reagisce alla cattiveria gratuita, per consapevole accettazione del male quotidiano, non per debolezza. La mitezza è invece una disposizione d’animo che rifulge solo alla presenza dell’altro: il mite è l’uomo di cui l’altro ha bisogno per vincere il male dentro di sé» (p. 35).  E, più avanti, vi è un passo un passo che è la dimostrazione, se non il filo conduttore della sua produzione, come ho scritto prima, del fatto che l’etica è quanto meno l’approdo sicuro della riflessione bobbiana: «La mitezza non è una virtù politica, anzi è la più impolitica delle virtù. In un’accezione forte della politica, nell’accezione machiavellica o, per essere aggiornati, schmittiana, la mitezza è addirittura l’altra faccia della politica. Proprio per questo (sarà una deformazione professionale) mi interessa in modo particolare. Non si può coltivare la filosofia politica senza cercare di capire quello che c’è al di là della politica, senza addentrarsi, appunto, nella sfera del non-politico, senza stabilire i limiti fra il politico e il non-politico. La politica non è tutto. L’idea che tutto sia politica è semplicemente mostruosa. Posso dire di aver scoperto la mitezza nel lungo viaggio di esplorazione oltre la politica. Nella lotta politica, anche in quella democratica, e qui intendo per lotta democratica la lotta per il potere che non ricorre alla violenza, gli uomini miti non hanno alcuna parte» (p. 39).

Non tutto è politica, e i saggi che compongo la prima parte (Etica e politica e Ragion di stato e democrazia) quelli della terza (Verità e libertà e Tolleranza e libertà) e, infine, quelli della seconda (La natura del pregiudizio e Razzismo oggi), sono da leggere proprio in quest’ottica, oltre che gustarli per via delle attente distinzioni tra concetti, scuole, dottrine e teorie, nonché in vista dello stesso agire: tante di queste analisi avrebbero molto da dire nel nostro scenario politico.

Resta un punto, l’ultimo, da affrontare: è possibile un’etica laica? Dopo aver passato in rassegna i quattro tentativi di fondazione laica dell’etica (giusnaturalismo, l’aristotelismo, il kantismo e l’utilitarismo) e le relative obiezioni, e dopo non averne risparmiate all’intuizionismo etico, al relativismo assoluto e alla fondazione religiosa, Bobbio chiosa:

L’uomo non può non ragionare ma la ragione da sola non basta. Il seguace della sola ragione conosce i suoi limiti e l’andare oltre gli è precluso. Tutt’al più cerca di intravedere un mondo in cui l’uomo, diventato tanto adulto da giudicare del bene e del male con le sole proprie forze (maggiorenne nel senso del saggio kantiano sull’Illuminismo), non abbia bisogno, per sapere ciò che deve fare e soprattutto per farlo effettivamente, di altri ammaestramenti da quelli che può ricavare dalla ragione e dall’esperienza. Ma non sarebbe uomo di ragione se non dubitasse dell’avvento di questo mondo, che, oltretutto, nella nostra età di ferro e di fuoco, gli appare più lontano che mai. Non sarebbe uomo di ragione se fosse tanto sicuro di sé, tanto presuntuoso e spavaldo da preannunciare a voce spiegata un mondo in cui, per ripetere le parole del poeta più disperato della nostra storia, «e giustizia e pietade altra radice/avranno allor che non superbe fole (p. 181).

Bobbio conclude citando il Leopardi della Ginestra, e forse è questo il suo lasciato, cioè una dimensione umana in cui si transita senza mappe, ma esplorando con dubbio e prudenza.

NOTE

[1] «Comprendere», II (maggio 1951), n. 3, pp. 102-13

[2] In «Critica liberale», anno IV, n. 35, novembre 1997, p. 143.

Loading