Nel giro di una settimana la parte di America che vota per il partito democratico è passata da uno stato di depressione e accettazione (i due ultimi stadi del dolore secondo la famosa teoria della psichiatra Kübler-Ross) a uno stato di euforia. Ho pensato questo quando alcuni giorni fa ero seduto in una emeroteca di una biblioteca pubblica e ho visto due donne anziane commentare la notizia della candidatura di Kamala Harris alla Casa Bianca. Leggevano l’articolo di giornale a voce alta e lo commentavano con frasi di giubilo e un tono di voce, per l’appunto, euforico. La scia emozionale per avere una candidata relativamente giovane e ambiziosa è stata tale da far persino accantonare ogni idea di ricorrere a mini-primarie per dare legittimità democratica a chiunque voglia candidarsi per le elezioni presidenziali. Eppure, soltanto pochi giorni prima, il tentato assassinio di Trump e, soprattutto, la sua lucida e autorevole reazione in quei minuti di caos, avevano fatto pensare che il partito repubblicano avrebbe trionfato alle elezioni di novembre.

L’elezione di Kamala Harris ha ripristinato il clima di ostilità tra i due partiti che era stato sospeso all’indomani dell’attentato a Trump in un tentativo di mostrare unità in un momento di fragilità istituzionale. I profili dei due candidati sembrano fatti apposta per fomentare antiche divisioni. La carriera da procuratrice della Harris e le condanne penali di Trump riportano alla luce il tema dei rapporti tra giustizia e potere politico. Il fatto che il confronto è tra una donna di colore e un uomo bianco riporta al centro della discussione il tema della razza e del gender come fattori chiave per scegliere il prossimo presidente. In un’America divisa 50/50 su questi temi ci si chiede se sarà mai possibile riconciliare le parti e trovare unità nell’identificare comuni interessi nazionali.

Il probabile scenario dei prossimi mesi sarà purtroppo ricco di colpi bassi e odio viscerale. Mentre da una parte Trump esprime il suo lato peggiore quando percepisce di essere in pericolo di perdere, Kamala Harris ha una fama di ribattere colpo su colpo quando le discussioni diventano accese. I temi saranno quelli di sempre che polarizzano i due gruppi di elettori ma la novità, stavolta, potrebbe non essere nella qualità del dibattito ma nelle caratteristiche demografiche dei due gruppi di votanti. Per anni il partito democratico ha puntato sui temi della razza e del gender per attirare i voti di un’America sempre più multi-raziale, e woke, con la conseguenza di lasciare ai repubblicani il voto di una popolazione bianca, proletaria e in via di invecchiamento.

La realtà di questi ultimi anni sta complicando questo prevedibile scenario con riassestamenti demografici che erano fino a poco tempo fa impensabili. La recente convention repubblicana non sarà ricordata per il discorso di Trump, che ha tradito a dir poco le attese, ma dall’intervento autorevole di Usha Vance, moglie del candidato vice-presidente J.D. Vance e figlia di immigrati indiani; o dal discorso della cantante rapper di colore Amber Rose, che ha parlato della difficoltà di essere un’artista conservatrice nell’industria dei media americani di oggi. La diversità etnica che comincia a vedersi alla convention è segno di un elettorato repubblicano che ha visto negli ultimi anni maggiore partecipazione di persone di colore, asiatici e latino-americani, sia donne che uomini.

D’altro canto, i principi di diversità, equità e inclusione che sono un cardine del partito democratico sono stati messi a dura prova durante il governo Biden. Basti pensare all’elettorato mediorientale (ma anche non mediorientale), che si è sentito tradito dall’appoggio dell’amministrazione Biden allo storico alleato israeliano nella guerra a Gaza. Oppure fanno riflettere le proteste di cittadini asiatici nei confronti di Harvard e altre università e prestigiose high schools per avere, a loro detta, favorito studenti neri o latini-americani a discapito di eccellenti studenti asiatici. Questo non significa che tali gruppi minoritari voteranno per Trump, che continua ad attirare soprattutto un elettorato bianco e proletario.

Il punto che voglio esprimere è che, in entrambi i partiti, i principi ideologici non riescono più a intercettare la larga parte della base elettorale come succedeva in passato, a causa di una progressiva frammentazione etnica della società americana, che somiglia sempre più a un crogiolo indecifrabile di lingue e culture di appartenenza. Il confine con il Messico, tradizionalmente la porta di ingresso di immigrati latino-americani, è diventato oggi il punto di entrata di migranti da tutto il mondo, con molti asiatici, russi e africani che scappano da guerre, regimi illiberali o povertà.

È inevitabile, quindi, che il riassestamento della base di elettori porterà negli anni a venire ad una trasformazione dei programmi di partito che dovranno fare fronte a nuove realtà. È possibile che una società americana senza maggioranze etniche nette avrà come conseguenza due partiti con visioni ideologiche meno distinte e programmi di partito più fluidi e flessibili, pensati, appunto, per intercettare una base elettorale dalle forti contraddizioni interne.

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