Sabino Cassese (1935) è professore alla School of Government della Luiss, già ministro per la funzione pubblica nel governo Ciampi (1993-1994), giudice emerito della Corte costituzionale e professore emerito della Scuola Normale Superiore di Pisa. Scrive sul «Corriere della Sera», sul «Foglio» e sul «Domenicale» de «Il Sole 24 Ore». Tra le sue numerose pubblicazioni, le più recenti: Ritratto dell’Italia (a cura di, 2001); La crisi dello Stato (2002); Lo spazio giuridico globale (2003); Il cittadino nella società (2004); Oltre lo Stato (2006); Governare gli italiani. Storia dello Stato (2014); Dentro la Corte. Diario di un giudice costituzionale (2015); Territori e potere. Un nuovo ruolo per gli Stati? (2016); La democrazia e i suoi limiti (nuova ediz. 2018); La nuova costituzione economica(a cura di; nuova edizione 2021); Una volta il futuro era migliore (2021); Intellettuali (2021); Il governo dei giudici (2022); Le strutture del potere. Intervista di Alessandro Sardoni (2023).
a cura di Danilo Breschi
- Siamo alla vigilia di un appuntamento elettorale estremamente importante, forse cruciale, per l’Unione europea, ossia il rinnovo del suo Parlamento. In un Suo saggio di qualche anno fa (Territori e potere. Un nuovo ruolo per gli Stati, il Mulino, Bologna 2016), sottolineava, citando Helmut Schmidt e Jean Monnet, come l’Europa viva di crisi e sia stata costruita attraverso crisi, risultando la somma delle loro soluzioni. Non possiamo certo negare che l’attuale sia una fase contraddistinta da innumerevoli e gravi crisi, dentro e ai confini dell’Europa. Come valuta lo stato di salute dell’Unione? Quali le lacune da colmare? Quali i punti di forza da consolidare?
Nonostante il continuo piagnisteo sullo stato dell’Unione europea, ritengo che il suo stato sia ottimo. L’Unione europea è riuscita ad affrontare, negli ultimi tre anni, due crisi che l’hanno vista protagonista. La prima, quella della pandemia, durante la quale l’Unione europea è riuscita a gestire la vaccinazione in maniera eccellente, utilizzando il proprio bilancio, riuscendo ad acquistare a prezzi molto più convenienti di altri Stati, assicurando una sollecita distribuzione dei vaccini, in una parola svolgendo il ruolo di acquirente unico. La seconda crisi è quella ucraina nella quale l’Europa ha saputo, da un lato, mostrare la sua capacità di “État puissance”, nell’imporre e fare eseguire sanzioni, dall’altro, ancora una volta, ha saputo utilizzare il bilancio per l’acquisto di armi. L’elemento comune a questi fattori di successo dell’Unione europea è costituito dall’aumento della sua “fiscal capacity” mediante l’indebitamento. Finora, questo è stato il punto debole dell’Unione europea che è un gigante regolatorio e un nano finanziario. Basti ricordare che l’Unione, un corpo politico con 448 milioni di abitanti, ha un bilancio di dimensioni pari a circa un quinto del bilancio italiano, che è uno solo dei 27 Paesi che fanno parte dell’Unione. Ora il tema della “fiscal capacity” è all’ordine del giorno e quindi le riforme sono sulla strada giusta.
- A tal proposito, qual è il Suo giudizio sulla nuova agenda per l’Europa proposta con forza da Mario Draghi, in veste di superconsulente della Commissione Ue, ovvero sull’esigenza, come ha ribadito in questi giorni Corrado Passera, di un maxi piano di investimenti federali, perché «senza un piano straordinario o rischiamo il declino o la dipendenza da altre potenze globali»?
Quella del piano è un’ottima idea, che ripresenta la questione del bilancio europeo perché un’Europa dotata, da un lato, di una capacità tributaria e di indebitamento, dall’altro di una capacità di spesa, può diventare un’entità capace di svolgere quella funzione redistributiva che tutti i poteri pubblici oggi svolgono nel mondo. Inoltre, bisogna considerare che solo attraverso un piano l’Europa può acquisire alcune delle funzioni proprie dei poteri pubblici contemporanei, quelle collegate all’idea di Beveridge della libertà dal bisogno, che riguardano salute, istruzione, lavoro e protezione sociale. In alcuni di questi campi, l’Unione europea ha già in cantiere progetti interessanti, come quello dell’Unione europea della salute.
- A proposito di piani straordinari, come ritiene che il nostro Paese stia affrontando la sfida del PNRR? Pensa che alla fine la nostra pubblica amministrazione, che ha sempre avuto grossi problemi in termini di capacità di spesa e di capacity building riuscirà a realizzare gli investimenti previsti e con quale impatto per il futuro delle prossime generazioni?
Il piano nazionale di ripresa e resilienza costituisce perfetto modello di vincolo esterno, nel senso in cui questo era inteso da De Gasperi e da Carli, perché fissa gli obiettivi, determina i tempi, assegna risorse. Dall’altro, il piano di ripresa ha semplicemente confermato la diagnosi che conoscevamo, relativa all’amministrazione pubblica italiana. Questa riesce a gestire rapidamente obiettivi che comportano spesa corrente, mentre sa realizzare soltanto un quinto degli obiettivi che comportano spesa di investimento. È su questi ultimi che bisogna insistere per cercare di determinare un salto di qualità, specialmente nella capacità di ricorrere a privati, nonostante che oggi vi sia un continuo sospetto sul ruolo di imprese private che agiscano come organismi sussidiari, cioè nella veste di concessionari per lo svolgimento di funzioni pubbliche. Non bisogna dimenticare che lo Stato ha sempre fatto ricorso a privati per lo svolgimento di una parte delle sue attività: basta ricordare la funzione fondamentale di certificazione che è affidata a quei funzionari-professionisti privati che chiamiamo notai
- Lei è da sempre un attento studioso del rapporto tra diritto, politica ed economia, sia a livello nazionale sia europeo e globale. Molti anni fa uno degli intellettuali europeisti più convinti, Hans Magnus Enzensberger, recentemente scomparso, definiva «il mostro buono di Bruxelles» il complesso istituzionale che va sotto il nome di Unione europea. Metteva in guardia contro la degenerazione oligarchica e tecnocratica, infine antidemocratica, a cui si rischiava fortemente di andare incontro nel Vecchio Continente. In che rapporto stanno tecnocrazia, pianificazione e democrazia? E la burocrazia è destinata ad essere sempre e comunque, anche per la costruzione europeista, quella «gabbia d’acciaio» di cui parlava Max Weber?
Contrariamente a quello che si dice correntemente, penso la burocrazia sia il punto di forza dell’Unione europea. Bisogna ricordare che l’Unione è il risultato della combinazione di due fattori. Una ristretta élite politico-burocratica e antiche aspirazioni della cultura, coltivate per almeno tre secoli. Questi sono riusciti a creare un nucleo duro a Bruxelles, che è costituito da una burocrazia che costituisce il fattore di élite della costruzione europea perché riesce a analizzare, progettare, portare all’attenzione della politica, e poi a svolgere quella funzione fondamentale che Jean Monnet chiamava “far fare”. La critica tanto diffusa della burocrazia di Bruxelles è un’ottima arma mimetica per le classi dirigenti nazionali, nel senso che la utilizzano come scudo o come parafulmine per attribuire all’Unione europea responsabilità che non vogliono intestarsi.
- In un Suo recente editoriale pubblicato sul “Corriere della Sera” (Educare alla democrazia, 12 marzo 2024), Lei sottolinea il ruolo cruciale dell’educazione perché si abbia una cittadinanza consapevole, critica e attiva, almeno nel giudizio e nel discernimento. Senza quest’ultima, difficile parlare di democrazia. Più facile si scada nella demagogia. Quali provvedimenti concreti, sul piano legislativo, ad esempio nell’ambito della pubblica istruzione e dell’impiego della tecnologia digitale nel mondo scolastico e universitario, Lei riterrebbe utili e feconde per incrementare una cittadinanza autonoma e attiva?
I provvedimenti concreti sono di due ordini. Il primo e più semplice consiste nell’allineare i livelli di istruzione in Italia a quelli dell’Europa, se possibile portandoli a livelli anche più alti, come quelli della Corea del sud e del Canada. Questo vuol dire incrementare almeno di 20 punti le persone con un titolo di studio superiore e ancor di più di quelli con un titolo di studio terziario. Più complesso il secondo passaggio, che richiede educatori sociali alla cittadinanza in luogo dei partiti, che ormai non esistono più. Vi sono e sono molto diffuse scuole di politica che però non riescono a mettersi in rete. Occorre pensare anche a un modo nuovo di organizzare la rappresentanza perché solo forme sociali o comunitarie possono assicurare un’adeguata formazione alla cittadinanza, che non si esaurisce in quella cosa modesta che chiamiamo educazione civica.
- A tal proposito, secondo Lei, è davvero possibile guidare i processi di trasformazione tecnologica già in atto, di impatto travolgente, forse epocale, in modo tale che restino saldi e funzionanti i principi e i meccanismi istituzionali fondamentali per un processo decisionale e una convivenza che siano liberali e democratici? In altre parole, almeno per certi aspetti, parrebbe quasi che un mondo tecnologico si possa meglio adattare a culture olistiche, collettivistiche e autocratiche piuttosto che individualistiche, pluralistiche e democratiche. È così, oppure esattamente il contrario?
Anche qui esprimo un’opinione dissenziente nel senso che, così come la medicina e le migliorate condizioni di vita ci hanno regalato 20 anni di vita in più, la tecnologia ci ha regalato una vita immensamente migliore rispetto al passato. Né temo che la tecnologia possa portare a derive collettivistiche o autocratiche perché la democrazia è innanzitutto un metodo e questo va utilizzato anche nella diffusione della tecnologia: basta pensare al fatto che soltanto il web consente una comunicazione “many to many”, nell’ambito della quale si ingigantiscono le “fake news” ma dentro la quale anche corre un fattore educativo estremamente rilevante che non siamo ancora in grado di valutare ora, ma che riusciremo ad apprezzare tra qualche anno, quando avrà prodotto tutti i suoi risultati.