Lara Gallarati (1994), diplomata al Liceo Scientifico "Paolo Frisi" di Monza, è avvocato a Milano. Collabora con la rivista online «Salvis Juribus» e con il blog "DirittoConsenso".
Recensione a: E. de la Boétie, Discorso sulla servitù volontaria, a cura di E. Donaggio, interventi di M. Benasayag e M. Abensour, Feltrinelli, Milano 2014, pp. 124, € 8.50.
Un saggio tanto breve quanto rivoluzionario. Rivoluzionario quando è stato scritto, come approfondisce Miguel Benasayag nel suo intervento – Resistere in un’epoca oscura – pubblicato in questa edizione, perché in pieno Umanesimo, dunque quando l’Uomo diventa protagonista centrale della Storia, sostiene la tesi della servitù volontaria, descrivendo un’umanità debole e colpevolmente passiva. Ma anche oggi è rivoluzionario, per la schiettezza e l‘essenzialità con cui sbandiera al lettore, sotto al naso, delle verità tanto semplici quanto difficili da ammettere a sé stessi.
Oggi, in un periodo storico in cui invece l’attenzione per la dimensione «percepita» del comunicato sta raggiungendo livelli quasi maniacali; quando più importante del contenuto è che nessuno se ne senta offeso. Di certo non un problema che pare abbia ai suoi tempi preoccupato Étienne de la Boétie. Ma veniamo al saggio.
La prospettiva è politica: cerca di indagare le ragioni della sopravvivenza di un dispotismo. Come è possibile che migliaia di persone si sottomettano alla tirannia di uno solo? Un solo, comunissimo essere umano, spesso perfino inetto? Se è vero che costui può fare affidamento su un sistema di persone ambiziose disposte a tutta la condiscendenza possibile pur di ottenere il potere, è altresì vero che la parte restante della società nulla fa per emanciparsi dalla condizione di assoggettamento, resa sopportabile dalla comodità e dagli averi. Già questa è un’affermazione nient’affatto banale oggi, anzi. La mentalità odierna è letteralmente opposta: i governanti sono gli unici responsabili dei problemi del popolo, il quale ha l’unico compito di lamentarsene e attendere che giunga dall’alto la soluzione. Se non arriva, si urla alla «lotta».
E qui veniamo ad un altro profilo che, a mio avviso, è oggigiorno rivoluzionario. In un’opinione pubblica connotata dalla battaglia per “buttare giù” e “mandare via”, l’Autore ci dice: non serve togliere al tiranno il suo scranno, perché se il popolo semplicemente smettesse di vendersi a lui, egli se ne andrebbe da sé. Come le fiamme di un incendio che non si sedano tanto con l‘acqua, quanto con l’assenza di legna che le alimenti. Una rivoluzione pacifica, intelligente e silenziosa; una disobbedienza civile fattiva e operosa. Senza slogan, senza urla. Anche perché non servono quando negli spiriti delle persone sedimenta l’anelito della libertà. Questo impulso interiore è il motore dell‘emancipazione. Un impulso che, però, c’è solo se si è stati educati alla libertà: ivi inclusa la sua storia, «per misurare quelle [le cose, ndr.] passate e giudicare quelle a venire». Chi non ha mai vissuto nella libertà e non ne coltiva nemmeno la memoria, è in fondo incolpevole, non sapendo cos’è e dunque non potendo anelarvi, e chissà se riuscirà a (rectius, chissà se vorrà mai) liberarsi dalle catene che lo avvinghiano e capire che i giochi di luce del fuoco sulle pareti della caverna non sono che illusori gingilli.
L’abitudine alla servitù, come l’abitudine alla libertà, in tal senso giocano un ruolo fondamentale nel processo di emancipazione. Di contro, l’assenza del desiderio di libertà e l’accontentarsi di consolazioni ludiche sono strumenti che gli stessi servi volontari offrono, regalano, al tiranno. Il quale, di suo, fa anche uso di espiedienti per ottenere l’obbedienza di migliaia di persone: per esempio, attribuirsi una parvenza divina, oppure legittimarsi in nome di un’apparente pubblica utilità o del bene comune.
Non mi soffermerò oltre sugli ulteriori contenuti del saggio, cui rinvio. Piuttosto vorrei coglierne un profilo forse inedito, che lo rende profondamente attuale. Nel leggere scritti come quello in commento, di natura politica, viene spontaneo e naturale pensare al “tiranno” come ad una persona fisica. Eppure oggi la tirannia non coincide necessariamente con un uomo di potere. Può identificarsi anche con un fenomeno storico, molto probabilmente anzi sicuramente ineluttabile, ma non per questo da non tenere sotto stretta sorveglianza.
Siamo abituati ad avere tutto subito: beni, informazioni, legami. Con l’evoluzione tecnologica, in un “click” qualcuno ti porta a casa quello che hai comprato, ti informi su cosa accade in tempo reale dall’altra parte del mondo, parli con qualcuno; tutto senza alzarti dal divano. Comodità senza sforzi. Dirò di più; ora che si inizia a parlare di metaverso, sapremo procurarci con un “click” anche le emozioni: l’eccitazione e lo stupore di essere nella realtà virtuale che vogliamo, quando lo vogliamo, quando nel mondo reale ci annoiamo.
Cosa accomuna tutte queste situazioni (gli acquisti, l’informazione, i legami, le emozioni)? Il “click“. Il “click” che si è perfettamente in grado di fare da soli. Di questo passo potremo ottenere tutto da soli. Allora a cosa servirà l’altro essere umano?
Giustamente vi chiederete cosa c’entri questo con il saggio di Étienne de La Boétie. In esso si legge che un formidabile, anzi direi il più formidabile, strumento nelle mani del tiranno, donatogli dai comportamenti stessi dei servi volontari, è l’isolamento. La solitudine è strumento di limitazione della conoscenza dell’altro, del suo pensiero, del confronto e, di conseguenza, è limite al raggiungimento dei loro frutti, cioè l’emancipazione e l’esercizio della libertà. Una tirannia dei nostri giorni, della nostra civile ed evoluta società occidentale: l’idea che grazie alla tecnologia ci si basti da soli, che non si abbia piú bisogno di nessuno, un individualismo radicale e forzato, propugnato sino alle sue estreme conseguenze solo per dimostrare di essere moderni, al passo con i tempi. Ed è una tirannia perchè oggi la digitalizzazione è percepita come lo strumento con cui l’umanità può diventare efficiente, ecologica, sempre connessa, sempre utile. La digitalizzazione, oggi, viene descritta come un fine da perseguire per il bene comune, circondata da un’aura divina, la panacea di tutti i mali. Vi ricorda qualcosa? La parvenza divina e di utilità pubblica che la Boétie descrive come uno dei metodi con cui un dispotismo, uomo o idea poco importa, si conserva. Qualcosa che gli viene fornito direttamente dai servi volontari che vi aderiscono. Con la cecità che connota loro e che non permette di rendersi conto che un gruppo di umani isolati l’uno dall’altro non è civiltà e non potrà mai costituire presupposto e solida base di progresso.
Étienne de la Boétie lascia però aperta la strada ad una speranza: che il servo volontario diventi attore, protagonista del proprio tempo, consapevole di ciò che lo circonda. Nel saggio il servo volontario non è la vittima passiva che non può che lagnarsi per un immutabile stato di cose: con la ribellione, nel senso sopra accennato, può diventare un essere dinamico creatore del cambiamento. Ma ciò può accadere solo se si relaziona realmente con l’altro: «tutti unici, non tutti uniti». Non un’unica e indistinta massa di corpi non pensanti e dalla mentalità conformista, ma una pluralità di singoli dotati di una ricca diversità.
É più che condivisibile, in chiusura, la definizione che di questo testo dà Enrico Donaggio nell’introduzione: «utopico», perché «impossibile da ambientare in un luogo preciso e definitivo». Perché è stato scritto nel XVI secolo, ma è più contemporaneo che mai.