Ada Fichera (1984), giornalista, è Direttrice della Collana “Pensiero Sindacale” delle Edizioni Sindacali – UGL e docente di Comunicazione politica e istituzionale e di Cultura Sindacale presso l’Accademia Telematica Europea. Si occupa di filosofia, di storia del pensiero del Novecento, di sindacalismo. Secondo posto al Concorso “RAI-Giornalisti del Mediterraneo” 2009 e Premio Speciale “Milano Donna” nel 2019, è autrice di una ventina di libri, fra cui Luigi Pirandello. Una biografia politica (2017), Angelo Oliviero Olivetti (2018), Mario Carli (2018), Sergio Panunzio (2019), La storia è … domani. Corsi e ricorsi di pensiero sindacale (2021), Finché scandalo non ci separi. Autori vittime di oblio o indiretta censura (2021).
Recensione a: D. Breschi, Z. Ciuffoletti, E. Tabasso, La globalizzazione imprevidente. Mappe nel nuovo (dis)ordine internazionale, Effigi, Arcidosso 2021, pp. 368, € 18,00.
Dopo oltre trent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, il mondo appare sempre più mutato e senza un preciso obiettivo da perseguire né una meta da raggiungere. È da qui che ha inizio il viaggio, ricco di spunti e riflessioni, di Danilo Breschi, Zeffiro Ciuffoletti ed Edoardo Tabasso, divenuto libro per le Edizioni Effigi, con il titolo La globalizzazione imprevidente. Mappe nel nuovo (dis)ordine internazionale. E di vero e proprio disordine possiamo parlare se osserviamo la geografia politica del mondo in cui viviamo.
La globalizzazione ha operato una trasformazione profonda, non solo a livello sociologico ed economico, ma soprattutto sotto l’aspetto antropologico. Essa ci ha cambiati e continua a cambiarci, ma proprio per il suo essere a tratti manifesta a tratti subdola e, per sua natura, “imprevidente” (come dice il titolo di questo poderoso saggio), continua a provocare smarrimento e stravolgimenti vari nell’individuo e nella realtà che lo circonda. E se la pandemia, dalla quale iniziamo appena ad uscire, ha ancor più fiaccato sistemi radicati e consolidati, mettendone in discussione persino la sua validità, oggi ancor di più possiamo chiederci: la globalizzazione è davvero morta? o ha soltanto cambiato padrone?
Da una parte la civilizzazione occidentale è stata travolta dalla cancel culture e dal politicamente corretto, dall’altra la “purificazione” ed “epurazione” della propria storia passata ha reso la cultura europea sempre più vulnerabile e impreparata a rispondere alle sfide epocali ormai dietro l’angolo. Breschi, nel saggio citato, sottolinea ad esempio che uno degli aspetti della globalizzazione è la condivisione, alquanto “pericolosa”, dello spazio con una potenza, la Cina, che è stata capace di celare i dati del Covid, creando la diffusione di quella che è poi divenuta una pandemia mondiale. Ciuffoletti fa quindi da controcanto riferendosi al nuovo disordine mondiale gestito di frequente dagli Usa, autorevoli, ma talvolta poco razionali, nelle scelte internazionali e di natura geopolitica. Quindi, Tabasso si chiede, citando a sua volta Samuel P. Huntington, se l’Occidente saprà rinnovarsi o se «un continuo sovvertimento interno finirà semplicemente per accelerare la propria fine o la propria subordinazione ad altre civiltà economicamente e demograficamente più dinamiche». Non si può dunque non parlare della fragilità del sistema liberale, che le «accelerazioni storico-sociali indotte dalla pandemia hanno reso catalizzatore per una nuova fase», certamente non più rosea, per le democrazie occidentali, di quella precedente.
Qui subentra una riflessione, forse la più preziosa che questo saggio può accendere: quale futuro del mondo del lavoro e quale modello economico? La globalizzazione, come evidenzia lo storico Corrado Ocone, in un testo citato proprio da Tabasso, si è sviluppata attraverso il predominio di tre miti: il Mercato, il Diritto e la Tecnica. Da quest’ultima, possiamo partire per provare a fornire alcuni elementi che, tenendo anche conto della storia e della filosofia del Novecento, possono fare da guida per una via futura.
La scienza e la tecnica hanno reso invulnerabile e onnipotente l’uomo, ma poi, di fronte ad un virus, il Covid-19, hanno mostrato che ci è voluto “poco tempo” per mandarlo in tilt e mettere in discussione tutte le sue certezze. Già Ugo Spirito (1896-1979), uno dei maggiori filosofi italiani del Novecento e teorico del corporativismo, aveva affrontato e discusso il tema della “tecnocrazia”. L’espansione della tecnica, secondo Spirito, avrebbe prodotto la fine dell’individualismo borghese e il superamento dell’egocentrismo, invece la tecnica ha potenziato l’individualismo. Egli parlava di nuova economia che si andava instaurando, fuori da ogni dualismo, di pubblico e di privato, del «comunismo della scienza e della tecnica» che andava realizzando una rivoluzione capace di agire e operare alle radici della società. Come dargli torto, se solo pensiamo alla globalizzazione, culla dell’odierna tecnocrazia?
La tecnica, unita al benessere diffuso, ha scatenato l’individualismo distruggendo il concetto di comunità. Quale argine a tutto questo? Il suo corporativismo integrale non realizzabile, e superato oggi, può tuttavia insegnare qualcosa sul piano economico e sociale: il primato delle competenze e degli interessi collettivi e generali su quelli privati e individuali. È questo un concetto al centro del capitolo dedicato proprio a Spirito da Marcello Veneziani nel suo Imperdonabili (2017). Questa tesi è stata poi smentita dalle evoluzioni del neocapitalismo, anche col concorso ideologico della cultura di provenienza marxista. Ma oggi resta ancora di grande attualità e supporto per provare a ricostruire un mondo in cui «la tecnica non può esaurire il destino dell’uomo».
Parlando infine di lavoro, è un altro gigante della filosofia del Novecento ad esserci di sicuro e fecondo orientamento: Giovanni Gentile (1875-1944). La sua visione comunitaria e il suo umanesimo del lavoro rappresentano un pensiero dal quale ripartire. Scrive Gentile nel suo Genesi e struttura della società (1943):
All’umanesimo della cultura, che fu pure una tappa gloriosa della liberazione dell’uomo, succede oggi o succederà domani l’umanesimo del lavoro. Perché la creazione della grande industria e l’avanzata del lavoratore nella scena della grande storia, ha modificato profondamente il concetto moderno della cultura. Che era cultura dell’intelligenza soprattutto artistica e letteraria, e trascurava quella vasta zona dell’umanità, che non s’affaccia al più libero orizzonte dell’alta cultura, ma lavora alle fondamenta della cultura umana, là dove l’uomo è contatto della natura, e lavora. Lavora da uomo, con la coscienza di quel che fa, ossia con la coscienza di sé e del mondo in cui egli s’incorpora. Lavora dispiegando cioè quella stessa attività del pensiero, onde nell’arte, nella letteratura, nell’erudizione, nella filosofia, l’uomo via via pensando pone e risolve i problemi in cui si viene annodando la sua esistenza in atto. Lavora il contadino, lavora l’artigiano, e il maestro d’arte, lavora l’artista, il letterato, il filosofo. Via via la materia con cui, lavorando, l’uomo si deve cimentare, si alleggerisce e quasi si smaterializza; e lo spirito per tal modo si affranca e si libera nell’aer suo, fuori dello spazio e del tempo; ma la materia è già vinta da quando la zappa dissoda la terra, infrange la gleba e l’associa al conseguimento del fine dell’uomo. Da quando lavora, l’uomo è uomo, e s’è alzato al regno dello spirito, dove il mondo è quello che egli crea pensando: il suo mondo, sé stesso. Ogni lavoratore è faber fortunae suae, anzi faber sui ipsius.
Bisognava perciò che quella cultura dell’uomo, che è propria dell’umanesimo letterario e filosofico, si slargasse per abbracciare ogni forma di attività onde l’uomo lavorando crea la sua umanità. Bisognava che si riconoscesse anche al “lavoratore” l’alta dignità che l’uomo pensando aveva scoperto nel pensiero. Bisognava che pensatori e scienziati e artisti si abbracciassero coi lavoratori in quella coscienza della umana universale dignità.
È dal lavoro, anzi dal lavoratore, che, di fronte alla globalizzazione “spietata e imprevidente”, bisogna ripartire. Ogni uomo lavora ed è uomo perché lavora, cioè, con la sua attività spiritualizza la materia; nel lavoro, e con il lavoro, l’uomo si innalza allo spirito ed è perciò artefice di se stesso. In tal modo, è possibile resistere anche al contrappasso, di cui parla Breschi, della stessa globalizzazione, la quale, in modo incontrollato, «ha consentito anche a giocatori che baravano e inquinavano il libero mercato di circolare liberamente».
Da Gentile a Spirito, passando per una critica alla globalizzazione, possiamo allora immaginare un diverso futuro? La risposta è affermativa e trova spunto proprio da quell’umanesimo del lavoro che può tradursi oggi in una sorta di “post-umanesimo del lavoro”, dove l’idea corporativa può tradursi nella partecipazione responsabile dei lavoratori e dove il lavoratore e la comunità siano prioritari rispetto al profitto e a una visione individualista e narcisista della società.
Il futuro non può essere una parte, perché deve investire tutta la nostra vita e coincidere con la visione totale della realtà. Passato, presente e futuro così si fondono in una coscienza del tutto, dove mito, illusione e possibile orizzonte confluiscono, edificando un domani e un nuovo possibile “umanesimo”.