Michele Saracino  studia filosofia all’Università di Bologna e teologia all’Istituto di scienze religiose dell’Emilia-Romagna. Collabora con diversi quotidiani e riviste online. Si occupa principalmente di filosofia della mente, metafisica, metafisica della storia e teologia.

Recensione a
Storia della metafisica
a cura di E. Berti
Carocci, Roma 2019, pp. 388, € 31,00.

Al di là dell’intuizione, non è sempre chiaro a cosa ci riferiamo quando parliamo di metafisica. Aprire la finestra significa per tutti vedere un paesaggio diverso, ma siamo d’accordo sul fatto che c’è qualcosa che tutti vediamo? Potremmo esserlo, ma dire che c’è qualcosa che vediamo è molto diverso da dire che qualcosa che vediamo c’è, così come lo è dal dire che qualcosa c’è, che poi noi vediamo. Allo stesso modo, faremmo bene a chiederci se sia da prendere sul serio il vecchio scherzo per cui dalla quasi spazientita richiesta «Mi faccia mangiare, Marco!» immediatamente la cosa si fa seria al venir meno di una piccola virgola. Perché ci ritraiamo spontaneamente all’idea che «Mi faccia mangiare Marco!» possa essere una variante semiseria e innocente della frase precedente?

Nell’esperienza ordinaria di ciascuno, ripercorrere significa molto di più che riportare alla memoria: significa spesso riappropriamento, nuova problematizzazione, risemantizzazione. Il ripercorrere si configura come un rivivere, nella misura in cui ogni percorso ritrovato rivela un nuovo passaggio, s’incunea su nuove rotte, propone tragitti forse sfuggiti. Sembra chiaro infatti che parlare di domani implica inevitabilmente impegnarsi su ciò che è stato ieri e che, per forza o per inerzia, continua o cessa, s’intensifica o si modula. Ma che cosa significa impegnarsi in simili problemi? La stessa sintassi delle domande cosiddette ‘di senso’ non è sempre chiara. È allora il senso un problema di sintassi? O la sintassi un problema di senso? E quanti sensi, per la parola senso? È necessario raccogliere, per procedere: capire la storia per afferrare un senso, far leva su di esso per ridefinirlo. in definitiva: rifare per fare di nuovo.

È così che vanno riletti testi come la Storia della metafisica di Enrico Berti (Carocci 2021): in questo contesto, sforzandosi di restare in questa postura di pensiero dominata dalla reflexio, quel ‘piegarsi all’indietro’ che solo chi sta andando in avanti può portare a termine davvero. Necessario per riappropriarsi della storia in senso oggettivo, quindi come consapevolezza di ciò che è stato detto e con cui è obbligatorio fare i conti, rimane un testo fondamentale per indagare intensivamente il senso soggettivo di storia della metafisica intesa come interrogazione essenziale dell’uomo sul mondo e sul sé. Dai dibattuti esordi platonici, nell’ambito dei quali si rintraccia la posizione dell’idea come fondamento ontologico del reale, conoscenza ed essere si intrecciano: noi diciamo qualcosa se e solo se c’è qualcosa, e sappiamo qualcosa se e solo se quel qualcosa che crediamo è vero, cioè esiste conformemente alla credenza che ce ne siamo fatti. Uno dei principali lasciti della metafisica greca è proprio la convinzione che l’essere regga il pensiero e quindi – a fortiori – la conoscenza e il linguaggio. L’interrogazione dell’essere deve assurgere a preoccupazione principale, in quanto oggetto dell’unica scienza che vuole occuparsi del fondamento in quanto tale: con Aristotele la metafisica si configura in maniera definitiva come scienza dell’ente in quanto ente, quindi delle sue cause e dei principi primi. È proprio Aristotele a definire una prima svolta, per molti versi già decisiva del destino stesso della metafisica occidentale. Com’è noto, in Lambda viene introdotta la nozione di motore immobile come condizione necessaria a spiegare il moto eterno, vista l’insufficienza esplicativa legata alle soluzioni platoniche delle idee come cause formali e dell’anima mundi. La tradizione successiva ha per molti versi legato il proprio nome all’interpretazione (più o meno ortodossa) di questo libro della Metafisica aristotelica, a partire dalla lettura di Aristotele all’interno di una supposta tradizione pitagorico-platonica inaugurata dal platonico eclettico Eudoro di Alessandria. Se il neoplatonismo è spesso diviso tra una polemica sagace con Aristotele e il tentativo di conciliare lo Stagirita e le istanze ereditate dal medioplatonismo (in questo, soprattutto con Porfirio), a partire dal IX secolo irrompe sulla scena il grande progetto arabo-islamico di conciliazione tra Aristotele e Platone. In tal senso è da segnalare come particolarmente attiva anche la scuola degli aristotelici cristiani di Baghdad. Ma i secoli medioevali non rappresentano soltanto l’apogeo dell’interpretazione teologica di Lambda. Già Al-Fārābī mette l’accento sul ruolo di fondamento epistemologico che la metafisica come scienza deve ricoprire. Sulla scorta degli Analitici Posteriori (che gli Occidentali, alle stesse date, non conoscono) la metafisica è considerata scienza dell’ente in quanto soggetto e posta a fondamento non solo della filosofia teoretica, ma anche, con Avicenna, di quella pratica. Avicenna stesso, oltre ad armonizzare Metafisica e Analitici Posteriori, apporterà alcune novità che segneranno la storia successiva della disciplina: una su tutte, la distinzione tra essenza ed esistenza negli enti reali delineata nel Libro della Guarigione. Il problema di Dio, comunque, e della teologizzazione della metafisica, non viene mai meno. Proprio su questo punto Averroè polemizzerà con il predecessore, rileggendo l’intera questione teologica a partire ancora una volta da un punto di vista prettamente epistemologico: visto e considerato quanto scritto negli Analitici, l’esistenza di Dio è dimostrabile o no? Per Avicenna, la risposta è affermativa: soggetto della metafisica è l’ente in quanto ente, non Dio, che quindi può rientrare di diritto negli oggetti indagabili. Per Averroè non è così: nel Grande Commento alla Fisica, il Commentatore fa notare che compito della metafisica è sì chiarire la natura degli enti, ma di quelli separati dalla materia: così Dio, che rientra in questa categoria, è giù assunto a priori come esistente. In ambito latino, Tommaso risolverà la questione attraverso una complicazione: la metafisica è bipolare nell’elezione del proprio oggetto a seconda che l’intelletto operi secondo la via della risoluzione (dalla molteplicità discorsiva all’unità dell’intuizione dei principi) o secondo quella della composizione (dall’unità della teologia alla molteplicità delle scienze).

Come si è visto, seppur molto in breve, fin dagli inizi greci la nozione di metafisica è stata caratterizzata, intesa e adoperata in maniera non esattamente univoca. L’epoca moderna non farà eccezione. Se con Scoto l’impianto dato da Tommaso verrà completamente modificato, inaugurando un concetto di metafisica come scientia trascendens che fonda il piano trascendentale nell’ambito del quale la predicazione sull’ens creatum e su Dio può (e deve) essere univoca, Descartes ripensa daccapo l’intera impostazione della metafisica come scienza. Il celebre albero della conoscenza dei Principia del 1644 affonda le radici nella metafisica intesa come teologia, cioè come scienza dell’unico principio veramente certo e dunque capace di sostenere tutto l’edificio epistemologico del sapere umano: Dio. Il ruolo della metaphysica specialis come fondamento delle scienze era tuttavia destinato a venir meno in virtù di quegli stessi presupposti che ne avevano originato il successo: la domanda kantiana, che vuole scuotere il «gigante dai piedi di argilla», si condensa nella necessità di riportare l’interrogazione sul fondamento della realtà a recuperare un diretto legame con la realtà stessa, per come essa è data nell’esperienza. Un nuovo capovolgimento è all’orizzonte: la metafisica è un «abisso senza fondo» (bodenloser Abgrund), nel quale diventa facile perdersi in speculazioni una volta mollati gli ormeggi della conoscenza empirica. Dalla rivoluzione copernicana operata dal filosofo di Königsberg emergerà un nuovo concetto di metafisica, da intendersi come scienza dei limiti della ragione umana: di qui, la ben nota frattura (traumatica) tra teoresi e prassi, tra scienza e morale. Le vicende della metafisica dopo Kant assumono connotati sempre più sfaccettati, andando a demolire ulteriormente i tentativi di riunificare la nozione di metafisica in un concetto unitario. In questo senso, la distinzione strawsoniana (1959) in descriptive / prescriptive metaphysics è un utile strumento euristico per comprendere lo status quaestionis di inizio Novecento: da alcuni la metafisica è considerata kantianamente come metodo per delineare il ruolo, l’ordine e i domini propri delle scienze empiriche, per altri essa deve continuare a parlare del mondo, più che del nostro modo di esperirlo. In questo ultimo senso, il Novecento ha visto fiorire non soltanto il dibattito sulla metafisica di Antonio Rosmini (1797-1855), ma anche una forte ripresa di temi che sembravano essere relegati in una dimensione prettamente teologico-confessionale. Il Concilio Vaticano II ha coinciso con la destituzione del paradigma leonino della Aeterni Patris e quindi con una dismissione del tomismo dal ruolo di fondamento della teologia ufficiale della Chiesa. Questo ha sicuramente avuto un influsso sul ritorno ‘laico’ a Tommaso da parte degli studiosi, in particolare nel contesto della filosofia italiana. Molti temi della filosofia medievale vengono però rivalutati anche in un altro senso: la tradizione analitica di lingua inglese, a partire dai «giovani ribelli di Cambridge», ha dedicato un’attenzione particolare a risemantizzare e riformulare molti dei problemi classici della filosofia in termini linguistico-grammaticali radicalmente differenti rispetto a quanto fatto dalla tradizione moderna e ‘continentale’, conducendo, nei decenni, a un esito del tutto peculiare. Sulla scia di Wittgenstein, la tradizione analitica nasce impostata in un senso fortemente critico rispetto a tutto ciò che veniva allora identificato come ‘metafisica’. Tuttavia, l’analisi rigorosa del linguaggio e delle forme logiche del discorso e del pensiero hanno portato, a conti fatti, a un nuovo rinascimento della metafisica, spesso in senso assai prescrittivo: quasi che il vaglio della critica abbia raffinato la descrizione che della realtà siamo capaci di dare e, con essa, anche la sua comprensione profonda. In una sorta di exitus et reditus, ritorniamo così al principio, al problema di non voler, per educazione, «mangiare Marco»: mai come oggi, protagonista di una storia così eloquente, la metafisica come scienza si presenta sotto l’affascinante veste di questione radicalmente aperta.

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