Michele Saracino  studia filosofia all’Università di Bologna e teologia all’Istituto di scienze religiose dell’Emilia-Romagna. Collabora con diversi quotidiani e riviste online. Si occupa principalmente di filosofia della mente, metafisica, metafisica della storia e teologia.

Recensione a
Filosofia della mente. Corpo, coscienza, pensiero
a cura di M. Di Francesco, M. Marraffa, A. Tomasetta
Carocci, Roma 2021, pp. 304, € 28.00.

In uno straordinario passo delle Vite Parallele, Plutarco illustra il paradosso della nave di Teseo: dopo vari anni di continui restauri, modifiche e parziali ricostruzioni, può un ateniese dire che la nave è rimasta sempre lo stesso ente sostanziale di partenza, la ‘nave di Teseo’ appunto? Questo interrogativo ha stimolato menti brillanti, a partire da Thomas Hobbes (1655), fino alle più recenti teorie metafisiche sulla consistenza ontologica delle parti e degli enti (Varzi 2008).

Ancora un’altra istantanea. Un personaggio inquietante abita le Metamorfosi di Ovidio: si tratta di Narciso, figlio di Endimione, quest’ultimo entrato grazie a Keats nell’immaginario comune come incarnazione della bellezza metafisica. Narciso è innamorato di , si specchia, letteralmente affonda nella propria immagine. Ma chi è e di chi è quel ritratto acquatico e fatale? Esiste un io tale da poter essere riflesso, contemplato, amato?

Il lettore attento non ha difficoltà a cogliere il sottile filo rosso che lega queste suggestioni. In fondo, ad essere tematizzato è uno degli enigmi fondanti del filosofare stesso, la domanda sottesa all’imperativo del conosci te stesso: esiste un io? Si dà un nocciolo duro dell’esperienza in prima persona tale che il soggetto di questa permanga sempre uguale a se stesso, in modo da potersi riconoscere? E se la risposta è sì – come spesso poi è stato nei secoli – che natura ha l’io? Quale consistenza?

Per permettere al lettore italiano di orientarsi nella selva filosofica che circonda la questione forse più difficile della storia del pensiero, la casa editrice Carocci ripropone oggi una seconda ristampa del manuale critico scritto da Michele Di Francesco, Massimo Marraffa e Alfredo Tomasetta Filosofia della mente. Corpo, coscienza, pensiero (prima edizione: 2017). Scopo del volume, come esplicitato dagli Autori fin dall’Introduzione, è quello di proporre «una presentazione critica dei principali problemi discussi nell’ambito della filosofia della mente contemporanea, con particolare attenzione alle questioni poste dagli sviluppi dell’indagine scientifica intorno alla natura, il funzionamento e l’architettura della mente».

Quando si fa uso di nozioni come ‘corpo’, ‘mente’ o ‘coscienza’, infatti, si tende a dare per scontata l’univocità dei loro significati: conoscere la storia evolutiva di questi concetti è indispensabile per comprendere come le cose non stiano affatto così. Se da un a parte l’avvento delle neuroscienze, della cibernetica e delle più recenti acquisizioni in campo sperimentale ha profondamente modificato l’immagine che nei secoli l’uomo ha costruito di se stesso, non è affatto vero che il problema della mente o l’enigma della coscienza nascano oggi; e se il padre indiscusso della tematizzazione più raffinata e chiara del problema intorno al rapporto mente-corpo è indubbiamente Descartes, le soluzioni proposte e le divaricazioni che il dibattito stesso ha preso nel corso del tempo sono state numerose e – quasi a fortiori – estremamente affascinanti.

Il cartesianesimo, si diceva, è una svolta, non una creatio ex nihilo del problema. Prima di Descartes la nozione di anima riassumeva, nelle diverse accezioni in cui si ritrova nelle fonti, l’unione di ciò che oggi intendiamo per quel plesso di funzioni che chiamiamo mente e di quell’insieme di esperienze disponibili che chiamiamo coscienza. Descartes approccia alla questione da un punto di vista epistemologico prima ancora che ontologico, cerca di trarre dall’introspezione qualcosa di molto diverso dall’obiettivo agostiniano dell’in te ipsum redi: se Agostino cerca un quid di sostanziale che manifesti e apra al rapporto con Dio, Cartesio ha bisogno di un punto archimedeo per fondare una nuova scienza de la certitude. Una volta individuato il pensiero come dato essenziale, tuttavia, il residuo indesiderato delle Meditazioni che non si può nascondere sotto il tappeto è la difficoltà a conciliare l’attività della sostanza pensante con l’evidenza incontrovertibile della materia.

È affascinante ripercorrere quello che si presenta come un viaggio nella storia delle idee intorno all’io della mente e che, mentre mostra il fluire della fatica umana alla ricerca della verità su ciò che di più intimo esiste, sembra inevitabilmente parlarci di noi stessi. Dai dubbi di Comte sulla legittimità dell’introspezione come metodo, al comportamentismo di Watson, inizialmente le vie che vengono battute dopo la nascita della psicologia sperimentale sono quelle di un rifiuto dell’impostazione cartesiana. Del resto, la critica dell’empirismo inglese aveva impresso un significativo cambio di direzione alla ricerca, pur non smettendo di confrontarsi con concetti ontologicamente impegnativi come quelli di ‘io’ o ‘coscienza’ alcune volte per decostruirli, altre per offrirne una rimodulazione. È proprio l’avvento del comportamentismo a indirizzare il dibattito in un senso ben preciso: se è vero che, in termini ryleani, ‘lo spettro va espulso dalla macchina’ e non c’è nulla di misterioso e di ‘interno’ in grado di spiegare l’agire umano nel mondo, non solo il dualismo cartesiano si conferma come obsoleto e insoddisfacente, ma l’unico dominio nel quale è legittimo indagare diventa quello della materia, del corpo.

Con buona approssimazione, si deve riconoscere che è dalla crisi del dualismo cartesiano che scaturisce la prima vera, profonda spaccatura che de facto caratterizza la filosofia della mente: quella, cioè, che non cessa di consumarsi fra il riduzionismo e l’antiriduzionismo del mentale al fisico. Ecco allora delinearsi all’orizzonte della riflessione una gamma di teorie che spazia dal riduzionismo radicale dell’eliminativismo dei Churchland al materialismo non riduzionista delle fortunate teorie computazionali del mentale raccolte – ognuna a modo suo con le proprie specificità – sotto la denominazione di funzionalismo, senza dimenticare soluzioni apertamente antiriduzioniste come quelle collegate agli argomenti in favore dell’esistenza dei qualia. In quest’ultimo senso, è di grande interesse lo spazio dedicato dagli autori al recentissimo programma di ricerca di fenomenologia analitica dell’esperienza cosciente.

È chiaro come l’enorme successo ottenuto da quella peculiare intersezione fra filosofia, informatica e neurofisiologia che prende il nome di funzionalismo computazionale eserciti ancora oggi un fascino non trascurabile: tra le virtù di questo tipo di teoria rientra senz’altro il fatto che l’idea del mentale come processo di computazioni su informazioni risulti essere compatibile con una più che soddisfacente accettazione del materialismo fisicalista lasciando comunque più di una porta aperta ad un’interpretazione non riduzionista del mentale. Se è vero che ogni stato mentale è associato ad una ‘funzione’, quindi ad un ruolo causale, e che è la particolare organizzazione di quella macchina biologica che è l’uomo a permettere l’attivazione della mente intesa come software, è vero anche che oltre agli indubbi vantaggi di una simile posizione (maneggia tranquillamente la nozione di realizzabilità multipla e di per sé si mantiene all’interno dei confini del fisicalismo) restano aperte molte questioni.

Al di là di quelle più strettamente tecniche (certamente la trattabilità computazionale dei processi centrali per quel che riguarda il livello dell’analisi funzionale, ma anche il problema dell’esclusione causale e della natura delle proprietà mentali per il funzionalismo metafisico, come dottrina generale), per altrettanti versi il vero punctum dolens con cui potrebbe essere riassunta gran parte della speculazione filosofica sul tema della mente rimane: davvero ci sentiamo così? Davvero, alla fine, il linguaggio delle macchine ha un vocabolario più appropriato, più aderente alla realtà, rispetto a quello della folk psychology?

In questo senso, più che all’esame delle tante teorie proposte per il quale si rimanda alla lettura dell’eccellente volume, è importante spendere qualche parola conclusiva a proposito delle prospettive che si aprono di fronte a ogni studioso della materia. Per secoli, descrizioni del comportamento umano (e della storia) in termini di atti intellettuali e volontari, in termini di scelte libere e consce sono stati ritenuti efficaci e soddisfacenti, e in realtà gran parte delle scienze umane si fonda tutt’ora su un vocabolario mentalistico e agenziale di questo tipo.

Il rapido sviluppo della neuroscienza (il grande pubblico ha certamente presente lo scalpore di esperimenti come quelli di Benjamin Libet, ma forse anche il recentissimo sviluppo del neurone artificiale Quantum Memristor) ha messo in crisi questo tipo di certezze, accusando di ‘ingenuità’ il modo ordinario di riferirsi al mondo mentale. Se, da un lato, i programmi di ricerca che fanno riferimento alla scienza cognitiva riscuotono indubbi successi, dall’altro resta altrettanto indubbia – e decisamente scomoda – l’incapacità esplicativa di molte teorie neuroscientifiche del mentale. Di fatto, la psicologia del senso comune con tutta la propria supposta inaccuratezza a livello neurofisiologico resta uno strumento più che valido (se non il più valido) per spiegare, comprendere e maneggiare il comportamento umano. È questa una condanna per la filosofia della mente in quanto tale a vedersi per sempre lacerata in una sorta di dualismo autoimmune dal quale è impossibile guarire? Insieme agli autori, non crediamo questo. Ciò che però è necessario fare è conoscere la storia dei problemi, immergervisi, per poter consapevolmente virare verso lidi più fecondi laddove se ne intraveda la possibilità: in tal caso, sarà sorprendente scoprire verso quali insospettati orizzonti risospinga costantemente la ricerca.

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