Catanese, classe ‘93. Giornalista Pubblicista. Dottore magistrale in Scienze delle Pubbliche Amministrazioni nell’Università degli studi di Catania. Collabora con il quotidiano “La Sicilia” per cui scrive nelle pagine di cronaca, cultura e spettacolo. Appassionato di storia, politica e comunicazione nutre profondo interesse per le discipline umanistiche attraverso le quali prova a declinare ogni giorno le sfumature della propria formazione.

Recensione a
L. Canfora, La democrazia dei signori
Laterza, Roma-Bari 2022, pp. 88, € 12.00.

A Luciano Canfora bastano poco più di settanta pagine per scuotere, a suo modo, alcuni dei “megaliti” della nostra società. Quattordici capitoli che si susseguono, incalzandosi, e che regalano a chi legge un’unica consapevolezza: la necessità di dover finire tutto d’un fiato. Interrogativi, riflessioni, considerazioni e analisi costituiscono, così, una delle migliori “scalette” possibili per condurre, consapevolmente, il lettore nella dimensione, attraente sebbene talvolta lontana, del piacere di pensare.

La democrazia dei signori non lascia indifferenti, coinvolge e probabilmente divide, o unisce, a seconda di prospettive e sentimenti. La quarta di pagina pone le prime domande innestando, ancor prima di poter aprire il libro e conoscerne, quindi, i contenuti le premesse di future considerazioni:

come è potuto accadere che il potere legislativo passasse di fatto nelle mani dell’esecutivo riducendo le funzioni delle assemblee elettive a meri compiti di ratifica? E soprattutto: un assetto politico resta ‘democratico’ anche quando il ‘demo’ se n’è andato? O si trasforma in una democrazia dei signori?

Facile notare il riferimento alla Costituzione e al concetto, forse più d’una volta relegato in seconda fila, di sovranità appartenente al popolo. Il perché di questo stare sull’attenti risulta di immediata e agevole comprensione. Secondo l’Autore, infatti, in Italia da oltre tre decenni le crisi, fisiologiche, della politica vengono risolte da soluzioni che dovrebbero essere definite “irregolari”. Per risolverle, o quantomeno provarci, non si fa affidamento sulla gente, attraverso i canali consentiti, ma si preferisce affidare la regia ai vari Presidenti della Repubblica che nominano, sovente, figure “terze” cui dare il compito di ristabilire quell’equilibrio che, forse, sarebbe più opportuno passasse dalla volontà popolare. Tutto lecito, ci mancherebbe. Quanto sia opportuno, però, è quel che ci si chiede.

Non sembrino esagerati, perciò, determinati paragoni con gli assetti istituzionali francesi del passato o, ancor più in maniera allegorica, con certi viaggi indietro nel tempo fino all’epoca dello Statuto Albertino. Che ci si sia ritrovati, più o meno volontariamente, ad avere a che fare con una trasformazione del nostro peso specifico negli assetti internazionali appare indiscutibile. Chiedersi come e perché ciò si sia determinato sembra necessario.

Chi scrive, per esempio, ritiene che i continui riferimenti al concetto di “unità nazionale” abbiano, in qualche misura, potuto favorire la “deriva” dentro la quale ci siamo ritrovati; come se per il “bene di tutti” (ammesso che ne esista davvero uno e che sia così facilmente individuabile) si sia voluto rinunciare a taluni aspetti indifferibili non solo inerenti la morfologia politica del paese (con la proliferazione di gruppi politici “non allineati” o di contestazione che, in itinere, finiscono per perdere la propria originaria attitudine e dimensione), ma pure certi altri aspetti costituzionali.

Canfora constata i cambiamenti e lo fa soprattutto quando questi non sono per forza migliorativi e devono essere letti con una chiave critica. Riflette, molto, sul significato di alcune parole e, soprattutto, su certe interpretazioni che si attribuiscono ad esse. “Populismo”, per esempio e per citarne una: cosa si intende quando la si utilizza? E, ancora, siamo sicuri che rappresenti al meglio quel che si vuol comunicare citandola? Lo studioso pugliese non ha dubbi; l’uso, di questo ma anche di altri termini, è strumentale. Chi lo adopera, con tono dispregiativo e riferendosi agli avversari politici, vuole dequalificarne l’operato e, così facendo, minimizzarne la portata. Un’operazione di fioretto, che appare truffaldina e non condivisibile.

Il testo si apre così, come fossimo in medias res, andando subito al centro di una delle questioni. Niente girotondi, dritti al dunque. La “doppiezza”, capitolo zero del libro, per spiegare, intanto a se stessi e poi agli altri, il perché di certe “barricate” di taluni verso il concetto di sovranità: ecco, quindi, la necessità di un altro neologismo, “sovranismo”. Da utilizzare, naturalmente, come dispregiativo anch’esso e con la necessità di distinguere, come troppo spesso accade, tra buoni e cattivi, bianco e nero. Democratici, per l’appunto, e anti: i primi, ovviamente, da preservare, i secondi da ridurre a rischio. Nonostante certe antitesi, discorsi utili a certa narrazione fondamentale a preservare i ruoli, legittimando (seppur attraverso proclama autoreferenziali) certe prassi e prospettive. Si può, forse, dirsi democratici e combattere chi asseconda la volontà popolare?

Andando avanti nella lettura si ha l’impressione, a tratti, di ritrovarsi protagonisti di una “critica a tutto tondo”. Fa un certo effetto, ma non spaventa e, soprattutto, rende quasi soddisfatti. Come se, abituati come siamo a ritrovarci trascinati dalla marea, giungesse improvviso uno slancio che ci invita a non aver paura d’andar controcorrente. Non per abitudine, men che meno per vuota esigenza. Molto più semplicemente, invece, per esercizio. Quasi riuscendo a riscoprire il senso, nobile almeno tanto quanto chi per primo nella storia se n’è fatto “insegnante”, del poter criticare qualcosa; dimenticandosi dei pregiudizi e dei preconcetti, avendo dinanzi a sé esclusivamente la possibilità di porre il proprio giudizio, scevro da condizionamenti e “veli” su qualcosa. Non ci si trova spaesati, quindi, né impauriti; al contrario, non casualmente, ci si sente attratti dalla riscoperta di quell’antica “arte” che, proprio in relazione al giudizio, come virtù e non disvalore, i Greci consideravano centrale nelle attività riguardanti il pensiero.

Via, senza indugi e con ritmo deciso, tra le pagine. Impossibile non notare stoccate alla stampa, a certi giochi di palazzo e strategie della politica e delle istituzioni. Riferimenti, nemmeno troppo velati e a proposito di Grecia, a chi non ha patito chissà quali patemi dovendo scegliere (in Europa) le modalità con le quali calpestare quel popolo che, molti anni addietro, di quella stessa comunità aveva rappresentato uno dei più importanti antenati. Slanci, giravolte e passi indietro. Dialettica confusa, forse scientemente (quella contro cui Canfora si scaglia); peggio dei ragionamenti machiavelliani rispetto a obiettivi e mezzi per raggiungerli.

Tanta Italia, ovviamente. Tra “colpi di Stato” (Alan Friedman definì così quello che portò Mario Monti a guidare il Paese) e tali imbarazzanti paragoni con Caligola o con certi dittatori. Canfora ne ha anche per i partiti. Il declino di questi ultimi passerebbe proprio dall’appiattimento, degli stessi, su medesime posizioni. Qualcosa di incredibile, se non fosse divenuto reale.

Parentesi dolorosa, sebbene dovuta, quella riservata alle morti sul lavoro. Anche in questo caso, lascia più che qualche dubbio (a Canfora, ma non solo) la tempistica con la quale, ogni tanto, si sceglie di approfondire impetuosamente l’argomento e, poi, ce ne si dimentica quasi non esistesse più. Si continua, scorrevolmente, nei ragionamenti che riguardano la vita entro i confini nazionali e gli equilibri comunitari e non. Tra accordi, stravolgimenti e nuovi scenari.  Torna, alla fine, il riferimento al “partito unico articolato” e a certe celeberrime considerazioni di Croce e Gramsci sul fenomeno.

L’allarme, in ultimo, ritorna assillante. È quello rappresentato dal “suffragio ristretto”; altro non è che argine alla democrazia? Si sta, forse, verificando una “zona a traffico limitato” all’interno della quale, per autoesclusione (indotta?), l’assenteismo dei più consegna la Res publica alle mani di pochi? Se il demo se ne va, cosa rischia di divenire un assetto politico che si dice “democratico”?

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