Carmen Dal Monte (1963), Ph.D., è CEO di Takeflight, società attiva nel settore dell’intelligenza artificiale per scuole e imprese. Ha insegnato etica della finanza e comunicazione della scienza in diverse università italiane. I suoi ambiti di ricerca includono l’etica, l’intelligenza artificiale, la comunicazione della scienza, i sistemi di classificazione nella storia della cultura e l’innovazione didattica nelle scienze umane e sociali. È autrice di saggi e articoli su questi temi.

Il Dinah Project è un’iniziativa fondata da tre figure di primo piano del diritto e dei diritti umani in Israele: la Prof.ssa Ruth Halperin-Kaddari, la giudice (in pensione) Nava Ben-Or e l’avv. Col. (Ris.) Sharon Zagagi-Pinhas. Nato nei mesi successivi all’attacco del 7 ottobre 2023, il progetto ha raccolto e analizzato centinaia di testimonianze, prove forensi, immagini e riscontri medici per documentare in modo rigoroso l’uso sistematico della violenza sessuale da parte di Hamas come strumento di guerra. Il rapporto che ne è seguito è oggi il più completo mai redatto sul tema della CRSV (Conflict-Related Sexual Violence) legata a quel giorno.

Il 7 ottobre 2023 ha segnato una cesura nella storia della violenza contro le donne in contesti di conflitto. In quell’attacco coordinato da Hamas contro civili israeliani, la violenza sessuale non è stata un effetto collaterale, ma un’arma deliberata e sistematica.

Il Dinah Project, nato nei mesi successivi a quel giorno, ha documentato con rigore le prove di quanto accaduto. E, nel farlo, ha sollevato una questione fondamentale: è possibile continuare a considerare la violenza sessuale in guerra come un effetto secondario, inevitabile, oppure dobbiamo riconoscerla per quello che è spesso diventata — uno strumento di terrore, controllo, annientamento?

Quando la sessualità viene trasformata in arma

Secondo il rapporto del Dinah Project, Hamas ha utilizzato la violenza sessuale come tattica di guerra: uno strumento strategico per disumanizzare, umiliare e spezzare il tessuto stesso della società israeliana. Non si tratta di un’accusa generica. Le prove raccolte parlano di stupri di gruppo, mutilazioni genitali, nudità forzata, umiliazioni pubbliche. Alcune vittime sono state uccise durante o dopo l’aggressione; altre, tra cui ostaggi liberati, hanno raccontato esperienze di abusi sessuali, nudità imposta e minacce di stupro travestite da “matrimonio forzato”.

Una delle immagini più scioccanti è quella di Shani Louk, il cui corpo nudo è stato trascinato in pubblico e mostrato come trofeo di guerra. Ma dietro quell’immagine virale, ci sono decine di testimonianze meno visibili: quelle dei soccorritori che hanno trovato corpi nudi legati agli alberi, con segni evidenti di violenza sessuale; dei tecnici forensi che hanno documentato mutilazioni; dei testimoni oculari e auricolari che hanno sentito urla, richieste di aiuto, rumori inconfondibili.

Eppure, nel 2024, proprio quell’immagine è stata premiata da una giuria internazionale di fotogiornalismo, come se fosse possibile separare la potenza visiva dall’orrore che rappresenta. Non solo rimozione, ma umiliazione ripetuta: quella foto premiata non ha celebrato il dolore, ma l’ha ricodificato come linguaggio estetico, disumanizzando ancora una volta una donna ebrea già brutalizzata in vita e in morte. Non è solo un errore di percezione. È un atto osceno. È la celebrazione pubblica dell’annientamento del corpo femminile come linguaggio artistico, con una freddezza che richiama il gusto documentaristico dei carnefici del Novecento. C’è qualcosa di profondamente disturbante, quasi “nazista”, in quella freddezza che trasforma il corpo martoriato in icona simbolica.

Il silenzio che fa male

Il silenzio che ha circondato queste atrocità è stato assordante. Non solo da parte di media e istituzioni internazionali, che hanno esitato a riconoscere la portata della violenza sessuale. Ma soprattutto da parte di quel femminismo occidentale che ha costruito la propria forza sulla denuncia del patriarcato e della violenza maschile — e che in questo caso ha taciuto. Ha voltato lo sguardo. Ha negato, minimizzato, o peggio: ha chiesto altre prove. “Non Una Di Meno”, collettivi universitari, Ong europee e internazionali: tutte realtà che, di fronte a questa violenza, hanno preferito il silenzio alla complessità, l’ideologia alla giustizia.

Questo silenzio selettivo non è solo un errore morale. È un tradimento. È la dimostrazione che, per una parte della sinistra occidentale e del mondo femminista, i corpi delle donne valgono solo quando appartengono alla narrazione giusta. E che le donne israeliane, se violentate, non sono vittime ma danni collaterali della geopolitica. Ma c’è di più. Il silenzio è stato affiancato da forme sottili — e non meno gravi — di complicità culturale:

  • Complicità iconografica e simbolica: la premiazione della foto di Shani Louk come opera simbolica e potente, senza menzione del crimine che rappresenta, ha trasformato la violenza in linguaggio artistico. Una sublimazione della barbarie che umilia una seconda volta, e che legittima lo sguardo voyeuristico sull’annientamento.
  • Complicità accademica: nei mesi successivi al 7 ottobre, centri di ricerca, dipartimenti di gender studies e intellettuali postcoloniali hanno evitato ogni analisi sul tema. Come se la CRSV non esistesse quando le vittime appartengono alla parte “sbagliata” della mappa.
  • Complicità mediatica: molti reportage hanno parlato di “accuse israeliane”, evitando la parola “stupro”. Altri hanno chiesto prove come se fossero in un’aula penale, non di fronte a una tragedia documentata da medici, testimoni, video, audio e sopravvissuti.
  • Complicità attivista: piazze e manifestazioni femministe hanno continuato a sventolare slogan sulla liberazione, ignorando completamente la schiavitù sessuale inflitta a donne israeliane, a ostaggi, a corpi torturati, umiliati e violati. Come se la sorellanza avesse dei confini politici, e il corpo delle donne valesse solo quando utile alla causa.

Il Dinah Project ha risposto a tutto questo con uno strumento potente: un modello legale e probatorio che rompe con i paradigmi tradizionali. Invece di basarsi solo sulle testimonianze dirette delle vittime — spesso impossibili da ottenere, per via dell’uccisione delle stesse o del trauma subito — il rapporto riconosce il valore di fonti alternative: testimoni oculari e auricolari, dichiarazioni rese in tempo reale, prove forensi, elementi visivi e audio, analisi del contesto.

Ridefinire la giustizia

Il cuore innovativo del rapporto è la proposta di un nuovo paradigma: la violenza sessuale legata ai conflitti (Conflict-Related Sexual Violence, CRSV) non è solo un crimine individuale, ma un attacco alla comunità, un danno collettivo che mira a distruggere l’identità sociale e culturale del gruppo colpito. Per questo, sostiene il Dinah Project, servono nuove categorie giuridiche, nuove strategie investigative, nuovi strumenti per superare il silenzio.

L’idea di responsabilità penale congiunta — già adottata in altri contesti di crimini di guerra — viene rilanciata come chiave per colpire non solo chi ha fisicamente commesso le violenze, ma chi ha partecipato a un assalto collettivo fondato sull’indottrinamento, la brutalità e l’annientamento dell’altro.

Cosa ci chiede questo rapporto

Il Dinah Project non è solo una raccolta di prove. È un atto politico, culturale, giuridico. Ci chiede di smettere di ignorare la violenza sessuale quando le vittime non si adattano alle narrazioni dominanti. Ci chiede di riconoscere che anche le donne israeliane possono essere vittime. Che anche gli uomini, se denudati, torturati, umiliati, possono subire crimini sessuali. Che la guerra dei corpi è anche una guerra di racconti, e che silenziare certi racconti è un modo per prolungare la violenza. E ci chiede, soprattutto, di non permettere che la violenza sessuale venga normalizzata, relativizzata, strumentalizzata. Non più. Non ancora. E non nel nostro nome.

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