Amedeo Maddaluno si è laureato in Economia presso l’Università commerciale Luigi Bocconi di Milano nel 2011. Dopo un’esperienza di cooperazione in Egitto durante le elezioni parlamentari dello stesso anno, inizia a collaborare con diverse riviste di Studi internazionali («Affari Internazionali», «Eurasia», «ISAG – Geopolitica» e altre). Si occupa di storia ed economia politica nonché di strategia e affari militari con un forte focus sul mondo arabo e islamico e sullo spazio post–sovietico, sia come analista che come appassionato viaggiatore.
Recensione a
M. L. Andriola, La Nuova destra in Europa. Il populismo e il pensiero di Alain de Benoist
Paginauno, Milano 2019, pp. 476, € 25,00.
Quando chiedono, a me studioso di geopolitica e storia contemporanea del Vicino Oriente e dell’area ex sovietica, quale possa essere lo strumento migliore per comprendere quello strano oggetto politico non identificato chiamato da più parti “destra populista”, non rimando mai alla lettura di prodotti giornalistici risultati di un’opera di raccolta di interviste o incrocio e rielaborazione di materiale a propria volta giornalistico, testi che di sicuro hanno il pregio della semplicità ma l’imperdonabile difetto dell’assoluta mancanza di analiticità e profondità. L’effetto di questi testi è spesso confusionario quando non sensazionalistico e come sa chi si occupa di storia le mezze verità sanno essere ben più fuorvianti delle bugie. Il testo che suggerisco sempre è il corposo studio di Matteo Luca Andriola, giunto ormai alla seconda edizione per tenere il passo con l’attualità – strano per uno storico che, nella vulgata, dovrebbe occuparsi di “cose passate”. Quello storico è un metodo, un metodo che troppo spesso è ignoto – volutamente ignorato? – dai giornalisti (che invece non contravvengono mai alla vulgata che vuole loro dediti solo all’oggi). Andriola è innanzitutto un topo d’archivio, ama le fonti e i documenti coevi. Non rinuncia pregiudizialmente all’intervista e al confronto con i testimoni diretti, ma lo incrocia sempre con i documenti e con il lavoro analitico degli altri storici e dei politologi. Il risultato è un testo completo e vasto – e si badi che il nostro si focalizza su precisi casi di studio geografico nell’Europa Occidentale e in Russia. Le conclusioni a cui giunge sono tanto interessanti quanto pervicacemente ignorate da un’informazione di massa che preferisce le descrizioni semplicistiche, anche a costo di rinunciare a dotarsi di strumenti per capire cosa sia questa “Nuova Destra” (e non “Destra Populista”). Capire che questa destra è appunto una Nuova Destra erede in larga parte delle elaborazioni del filosofo francese Alain De Benoist – che portò alle estreme conseguenze il pensiero post-fascista della destra europea – è basilare. Se già i missini italiani avevano compreso, al di là dell’estetica nostalgica e delle convinzioni della base, come il fascismo del Ventennio (nella sua eterogeneità) fosse un fenomeno irrimediabilmente defunto e che occorresse “non rinnegare né restaurare”, De Benoist e il movimento culturale (si badi: culturale e metapolitico prima che politico militante!) della Nuova Destra portò questo ragionamento alle estreme conclusioni a partire dal 1969: occorreva anche iniziare a rinnegare e prendere le distanze. Prendere le distanze dal collateralismo con l’americanismo e dall’anticomunismo fine a sé stesso, prassi negativa che concentrava sull’ “anti” distraendo dall’elaborazione del “pro”; prendere le distanze dall’appiattimento su un certo reazionarismo cristiano per riscoprire le radici pagane dell’Europa; prendere le distanze persino dall’indifferenza verso le emergenti tematiche ecologiche. Tutte queste furono sfide che la Nuova Destra raccolse e vinse, rinnovando un pensiero di destra che dopo la Nuvelle Droite non sarà mai più quello della tipica destra radicale e nostalgica – oggi ridotta a gruppuscoli del tutto marginali, si pensi all’NPD tedesco, alla nostrana Forza Nuova (già più strutturata la penetrazione sociale e culturale di Casa Pound), di Democracia Nacional in Spagna o del British National Party in Gran Bretagna. Nemmeno la Nuova Destra resta un monolite; elitaria ed intellettuale – a volte persino intellettualistica – semina un metodo e figlia un filone culturale che si diffonde in una serie di partiti estremamente eterogenei che utilizzano a piene mani il metodo ed il linguaggio populista. Già: “populista” è una prassi, non un sistema di idee. Il rifiuto dell’americanismo finirà messo da parte con l’innamoramento per Trump da parte della Lega in Italia e del Rassemblement National in Francia. L’apertura all’ecologismo evapora. La riscoperta delle radici ancestrali dei popoli europei viene invece esaltata nell’etnoregionalismo, un etnoregionalismo delle piccole patrie che – si vedano in particolare la Lega e Alternative Fuer Deutuschland – si spingerà fino al filo-sionismo e all’attaccamento alle radici “giudaico-cristiane” dell’Occidente. Molteplici quindi i punti di contatto con i neocon di oltreoceano. Il superamento del discorso esplicitamente razzista per abbracciare un etnicismo localista e differenzialista si estrinsecherà, da ultimo, nel cavallo di battaglia di tutti questi movimenti: il tema migratorio. Nessuno dei partiti dell’ultima ondata della destra europea sposa ufficialmente tesi razziste: si preferisce renderle accettabili sotto il manto della tutela delle proprie radici e della “sicurezza” della piccola proprietà, fino a mutuare, davanti alla scomparsa del tema della tutela del lavoro dalle agende della sinistra, istanze di protezione dei lavoratori nazionali dalla concorrenza di quelli stranieri. Una destra che riassume e riassorbe le proprie contraddizioni con successo e che non rinuncia mai al fronte comune contro le sinistre sia con la destra liberale e liberista (si pensi agli accordi in Italia con la morente Forza Italia) ma nemmeno con quella più radicale (sempre in Italia, le collaborazioni elettorali o organizzative di base tra Lega e Casa Pound, o nel Regno Unito l’ingresso nell’UKIP britannico di molti ex militanti del British National Party). Una destra liberista in fatto di tasse e protezionista per la piccola e media impresa, che pretende di proteggere i lavoratori dagli altri lavoratori ma mai dal capitale in sé e per sé, etnonazionalista ma anche filoisraeliana: una destra proteiforme e di enorme successo. Di questa destra – ma è più corretto dire “di queste destre” -Andriola ricostruisce minuziosamente gli ultimi cinquant’anni di storia, fino al giorno d’oggi e, si diceva, all’abdicazione della sinistra. La sinistra ha cessato dagli anni ’90 e dagli esperimenti blairiani di “umanizzazione del mercato” di proporre qualsiasi innovativa elaborazione politica. Si è rifugiata non solo nell’accettazione del mercato come dato di fatto immutabile (persino il blairismo è ormai dimenticato!) e nell’esaltazione della parcellizzazione, nella difesa non della società e della coesione sociale ma dei diritti di singoli gruppi – segnatamente gruppi etnici e gruppi di genere. Ha in oltre denunciato ogni proprio passato attaccamento al mondo del lavoro. Non volendo elaborare una modello giusto di globalizzazione, si è limitata a provare a convincere i ceti medi e bassi che quest’ultima fosse buona di per sé. Ecco perché la sinistra attuale – esclusi alcuni lodevoli esempi intellettuali che nel nostro paese vanno da Domenico Losurdo a Stefano Azzarà, da Giorgio Galli ad Aldo Giannuli, da Costanzo Preve allo stesso Andriola – rinuncia in toto a voler davvero capire le complesse origini culturali e socioeconomiche di questa destra, preferendo rifugiarsi in un antifascismo ormai privo di presa popolare inefficace contro una destra che fascista non è (pur abbeverandosi a temi caratteristici del fascismo, come un certo spiccato nazionalismo e una marcata xenofobia, oltre all’intolleranza epidermica per la diversità e il profondo richiamo anticomunista). Non vuole guardare negli occhi la propria incapacità di essere innovativa, di elaborare teorie e prassi che, partendo dalle proprie basi ideali, parlino all’homo politicus del XXI Secolo. Forse è anche per questo che il libro di Matteo Luca Andriola ha fatto discutere: egli è stato accusato di voler giustificare per aver voluto capire, di aver dato eccessiva dignità alla complessità del proprio oggetto di studio che egli si rifiuta di derubricare a “incarnazione contemporanea del fascismo”. È proprio per questi due motivi che invece il suo libro è da leggere, meditare e studiare da parte di chi sia interessato a capire il nostro momento storico.