Lorenzo Morelli (1988), originario di Pescara, dopo la maturità classica ha proseguito gli studi presso la Luiss Guido Carli, dove ha conseguito la laurea triennale in Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali (2010) e magistrale in Scienze di Governo e della Comunicazione Pubblica (2012). Nel 2013 è stato ammesso al Ph.D. in Political History presso la Scuola IMT Alti Studi di Lucca, completato nel 2017 con una tesi su Elémire Zolla. Il lavoro di ricerca dottorale è confluito in un corposo saggio pubblicato nel 2019 per Historica, dal titolo Elémire Zolla, tradizione e critica sociale, recensito dalla stampa nazionale. Nel 2017/2018 ha ottenuto un posto come borsista di ricerca presso l’Istituto Italiano per gli Studi Storici di Napoli, dove ha proseguito le ricerche sul tradizionalismo antimoderno. Dal 2019 al 2020 ha lavorato presso il Museo delle Culture di Lugano, con l’obiettivo di approfondire l’esperienza dell’Istituto Ticinese di Alti Studi. Nel 2021 ha proseguito la ricerca grazie a una borsa di ricerca della Fondazione Ceschin Pilone di Zurigo. Nel 2023 è stato vincitore di una borsa di ricerca dal Dipartimento di Scienze Giuridiche e Sociali dell’Università di Chieti-Pescara, nell’ambito del PNRR. Autore di articoli e recensioni su rivista in ambito storico-politico, è giornalista pubblicista. In queste vesti è stato autore per le guide di “la Repubblica”. È stato membro della commissione del premio Milena Rombi (2017) e tutor presso la Luiss Guido Carli (2018/2019).

Recensione a: F. Mancini, La via Adriatica alla liberazione di Roma nel 1943, Pacini Editore, Pisa 2024, pp. 390, € 36,00.

Tutta la storia può essere osservata come una successione, perfettamente concatenata, di sliding doors. Tanto il caso quanto le scelte degli uomini ne determinano il corso, talché sovente ci si domanda quale piega avrebbero preso gli eventi se questo o quel fatto, se una o più decisioni, fossero state diverse. Rispondere a queste domande è impossibile – a rigore, una storia controfattuale è evidentemente inconcepibile – eppure il fascino discreto di certi interrogativi non lascia completamente indifferenti. Di recente, per esempio, Luca Fezzi si è interrogato sui più dibattuti “se” della storia romana, dando alle stampe Roma in bilico (Mondadori, Milano 2022) nel quale passa in rassegna i principali scenari controfattuali esplorati da intellettuali del valore di Livio, Plutarco, Gibbon, Burckhardt o Toynbee.

Sull’utilità e l’opportunità di queste domande vi è naturalmente disaccordo tra auctores. Facendo professione di storicismo, Benedetto Croce ammoniva contro la tentazione di vagheggiare ucronie, biasimata come un «giocherello ozioso e pigro». Certe ipotesi sono «vietate» poiché «antistoriche e illogiche», dal momento che dividono arbitrariamente «l’unico corso storico in fatti necessari e fatti accidentali» alla stregua di quanto ciascuno di noi fa con la propria vita «fantasticando intorno all’andamento che avrebbe preso […] se non avessimo incontrato una persona che abbiamo incontrata, o non avessimo commesso uno sbaglio».

Francesco Mancini, abruzzese come don Benedetto, si domanda invece come sarebbero andate le cose se, durante la seconda guerra mondiale, gli Alleati avessero scelto di liberare Roma sbarcando a Pescara e attraversando gli Appennini lungo la via Tiburtina. In questo cimento, l’Autore non prende le mosse da una personale reverie. Al contrario, l’interrogativo scaturisce dall’esame di documenti militari dei comandi anglo-americani che non lascerebbero dubbi: non soltanto la scelta di una via adriatica alla Capitale ha trovato effettivamente posto tra le opzioni militari, ma è stata dapprima deliberata e successivamente abrogata.

Peraltro, gli eventuali esiti di un’operazione anfibia sul medio Adriatico occupano soltanto l’epilogo del saggio. L’Autore dedica la più gran parte del proprio studio a un’approfondita ricostruzione delle opzioni militari sul tavolo degli Alleati, a partire dalla vigilia della Campagna d’Italia e fino al suo compimento. A questo scopo, attinge a piene mani e con disinvoltura dalla più affermata letteratura internazionale, dedicando particolare attenzione alla bibliografia storico–militare. Quello che ne emerge è un quadro complesso, originato da scelte difficili e controverse, figlie di incertezze tattiche e attriti fra i comandi Alleati. Nel saggio se ne riportano gli aspetti salienti con dovizia di particolari, alternando con apprezzabile equilibrio il racconto delle vicende politiche e militari – accompagnate da un puntuale inquadramento storiografico – ad aneddoti e schizzi da bozzetto, come quello sull’egolatria del generale Clark, che apre il primo capitolo. Inoltre, nel dare conto dell’Italia in balìa degli occupanti, Mancini non si limita a tratteggiare gli aspetti politico-militari maggiormente salienti ma insiste – opportunamente – nel rappresentare la neghittosità spirituale dell’agonizzante Italia fascista, diffusa tanto tra la gente comune che nella classe dirigente e nella monarchia. E ciò non al fine di individuare colpe e attribuire condanne, senza scivolare – bontà sua – nel mai pacificato dibattito sulla guerra civile, ma piuttosto in modo funzionale a definire, all’interno della Campagna d’Italia, il ruolo giocato dall’unico protagonista veramente (e suo malgrado) indispensabile: il popolo italiano.

Il saggio è impreziosito dall’autorevole partecipazione di Elena Aga Rossi – insigne storica, esperta della politica e dell’intervento degli Alleati in Europa e in Italia – che ne firma la prefazione. Principale e preliminare pregio del saggio di Mancini sarebbe, a suo giudizio, quello di alimentare la modesta storiografia militare sulla campagna d’Italia, i cui studi sono prevalentemente ascrivibili a storici stranieri «che pure si sono per lo più concentrati sul fronte tirrenico». Elena Aga Rossi spiega così l’anomalia:

Per molto tempo infatti gli studiosi italiani hanno quasi del tutto trascurato la storia della campagna d’Italia, concentrandosi soltanto sul movimento di resistenza, tanto che una parte dell’opinione pubblica meno informata ha creduto che l’Italia fosse stata liberata dai partigiani. Si potrebbe parlare di una forma di rimozione del decisivo apporto dalle forze alleate alla liberazione del paese.

Chi non sia digiuno del dibattito storiografico italiano sulla guerra civile può apprezzare la rispondenza al vero di questi concetti e la sensatezza di esprimerli così recisamente. Comunque la si pensi, sarebbe difficile negare l’insormontabile ostacolo rappresentato dalla mancata pacificazione nazionale sulla discussione circa il ruolo e i meriti dei protagonisti della liberazione dal nazifascismo, ai fini del consolidamento nel Paese di una comune coscienza politica.

Alla vigilia dell’ottantesimo anniversario della liberazione di Roma, il libro di Mancini ci costringe a fare una volta di più i conti con l’insipienza di protagonisti e gregari della guerra, di una capitale abbandonata alla mercé degli invasori, di decisioni strategiche tutt’altro che ovvie e incontestate, gravide di conseguenze. Della scelta di una via adriatica verso Roma, immaginata in parallelo a un’operazione anfibia a Nord della capitale – poi sostituita dalla deludente operazione Shingle – doveva esservi contezza anche tra i comandi tedeschi. Solo così – argomenta Mancini – potrebbe spiegarsi il rigoroso accanimento con il quale le forze naziste, ritirando a Nord, devastarono Pescara, distruggendo i collegamenti tra il mare e il sistema viario, tra la rete stradale, il porto e la ferrovia, senza risparmiare nessuna infrastruttura fra quelle rimaste in piedi dopo i bombardamenti Alleati della fine dell’estate del 1943. Minando, da ultimo, le macerie secondo la più classica strategia della “terra bruciata”. La città adriatica – argomenta Mancini – potrebbe assurgere ad autentico caso eccezionale della Campagna d’Italia, considerando sia l’enorme devastazione subita rispetto all’estensione territoriale, sia il conseguente numero di sfollati in rapporto alla popolazione complessiva. Per facilitare la comprensione di quest’ultimo aspetto, Mancini descrive così la situazione vissuta da Pescara, allora giovane e piccolo capoluogo di provincia:

Una città morta, liberata vuota dagli Alleati il 10 giugno 1944, lasciata quasi un anno in mano ai «monatti», in cui era singolare la stessa priorità delle distruzioni tedesche, rivolte contro centinaia di comuni abitazioni e con lo sgombero forzato per la profondità di ben cinque chilometri (a Napoli erano 300 metri) di tutta la costa della Provincia di Pescara e parte di quella di Chieti.

Nella terra attraversata dalla linea Gustav, assurta alle cronache belliche per le battaglie del Sangro e di Ortona, ma soprattutto per la fuga di Vittorio Emanuele III e Badoglio, la storia della Campagna d’Italia avrebbe potuto prendere una strada completamente diversa. Quella strada sarebbe stata la via Tiburtina, antica di oltre duemila anni, che da Pescara conduce a Roma (e che il Re aveva percorso in senso inverso). Non è dato sapere con certezza quali effetti questo avrebbe avuto sulla liberazione di Roma e dell’Italia, di certo però questa opzione «non era affatto impossibile e neanche del tutto improbabile. E anzi, ci si andò forse vicino, più di quanto siamo portati a pensare».

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