Antonio Alosco, già docente di storia contemporanea presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”, è autore di diversi libri. Tra i più recenti: Socialismo tricolore. Da Garibaldi a Bissolati, da Mussolini a Craxi (2018); Pietro Nenni. Un protagonista fuori dal mito (2019); I socialfascisti. Continuità tra socialismo e fascismo (2021); Riccardo Lombardi. Un personaggio amletico (2022); Francesco De Martino: un intellettuale politico (2022). Ha scritto molti saggi di storia contemporanea su numerose riviste di prestigio. Oltre a «Nord e Sud» di F. Compagna, «Nuova Antologia» di G. Spadolini, «Prospettive Settanta» e «L’Acropoli» di G. Galasso, si ricorda soprattutto «Storia contemporanea» (Il Mulino), diretta da Renzo De Felice, di cui è stato per molti anni collaboratore. Nel 2020, ha pubblicato sulla rivista «Forum Italicum. A Journal of Italian Studies» di New York il saggio Il percorso socialista di Gabriele d’Annunzio tra storia e letteratura. Ha inoltre curato la pubblicazione degli scritti politici di Francesco De Martino in quattro volumi e collabora agli Annali dell’Istituto Ugo La Malfa. È autore di diverse voci del Dizionario Bibliografico degli Italiani (Enciclopedia Treccani). Le sue opere sono reperibili in molte biblioteche italiane e straniere, soprattutto americane, in primo luogo nella Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti.
La nota vicenda dei rapporti burrascosi tra Benito Mussolini e la sua amante, Ida Dalser, è stata distorta con intenti meramente politico-ideologici da una campagna mediatica durata grosso modo dal 2006 al 2010, mentre è stata ricostruita nei suoi aspetti essenziali e veritieri dal maggiore storico del fascismo, Renzo De Felice, nella sua finora ineguagliata biografia mussoliniana[i]. Al professor De Felice, chi scrive, già suo allievo e collaboratore, inviò ormai molti anni fa i documenti che costituiscono oggetto primario del presente scritto. Documenti giudicati interessanti e non solo aggiuntivi a quanto già si sapeva, ma inediti per contingenze importanti.
Ebbene, dopo molti anni l’argomento Mussolini-Dalser è ritornato di attualità e su di esso è stata imbastita una campagna mediatica molto chiassosa in seguito alla produzione del film dal titolo Vincere (2009) del regista Marco Bellocchio. Ad essa, con intenti ideologici e di propaganda politica, hanno partecipato, oltre all’autore della pellicola, giornalisti, scrittori e storici per lo più appartenenti alla sinistra. Di questa incalzante campagna giornalistica (e della sua attendibilità), sviluppatasi tra il 2006 il 2010 (qualche tempo prima e dopo l’uscita del film), fornendo tra l’altro una interminabile pubblicità gratuita preventiva e successiva durata circa cinque anni (con un sentito ringraziamento del produttore) ci occuperemo nella seconda parte di questo scritto.
Veniamo adesso alla realtà dei fatti, alla ricostruzione cioè non solo personale, ma con importanti risvolti a carattere storico della vicenda. A questi aspetti circoscritti ma decisivi per gli sviluppi futuri chi scrive intende riferirsi, basandosi però su documenti inediti scoperti a suo tempo nell’Archivio di Stato di Napoli, che si possono leggere (quelli più significativi) in appendice, rinviando chi avesse interesse di approfondire l’argomento alle ricerche storiche precedenti e agli articoli immediatamente successivi.
Dopo Caporetto, nella primavera del 1918 Ida Dalser, originaria del Trentino, venne destinata come profuga nel campo di Piedimonte d’Alife (Caserta) insieme al figlio Benito Albino di tre anni e le venne assegnato un sussidio di Lire 4,5. Ella, per visite mediche di natura oculistica per il bambino, si trasferì a Napoli (le Autorità di polizia, addette alla sorveglianza, data la sua lunga permanenza in città, consideravano il trasferimento un pretesto perché avrebbe potuto curare il figlio allo stesso modo a Piedimonte). Nel capoluogo partenopeo, Benitino venne visitato dall’oculista prof. De Bernardinis, segnalato dal deputato socialista Arnaldo Lucci, sollecitato dalla madre, e poi dal medico specialista Manlio Giordano. La diagnosi di quest’ultimo era molto chiara: il bambino era di costituzione linfatica e presentava una paresi all’arto inferiore destro in rapporto «con probabile sifilide ereditaria». Si consigliava pertanto una visita specialistica di malattie dermo-sifilopatiche. Tale consulto dovette di fatto avvenire, perché nei rapporti successivi le autorità di Prefettura e Questura scrivevano esplicitamente, in relazione allo stato di salute del piccolo, di infermità dipendente da «sifilide organica ereditaria». Per la stessa fonte il bimbo compendiava «tutto lo squilibrio mentale della genitrice», che ripetutamente veniva descritta come «squilibrata con carattere neuropatico», la quale avanzava le sue pretese – soprattutto richieste di denaro, aumento straordinario del sussidio che le venne concesso – in forma violenta, minacciando addirittura nel novembre del 1918 il suicidio, se non fossero state accolte le sue richieste. La Dalser inoltre metteva in piazza fatti e situazioni intime e personali (oltre alle accuse al governo e a Mussolini) – secondo quanto era scritto nei rapporti degli organi di polizia di sorveglianza e secondo soprattutto quanto era contenuto nelle sue innumerevoli lettere inviate alle Autorità, asserendo anche di appartenere ad una delle più facoltose famiglie del Trentino e di avere versato i capitali in contanti posseduti per la fondazione de «Il Popolo d’Italia», al cui direttore chiedeva di fornirle il denaro concordato in sede giudiziaria. Trattandosi di questioni strettamente personali e familiari, il prefetto si rifiutò di entrare nella controversia. A tale riguardo ci chiediamo: quale pressione poteva svolgere a quell’epoca su un’alta autorità dello Stato il caporale Mussolini, da poco congedato dopo un lungo periodo trascorso in ospedale per le gravi ferite riportate nel famoso incidente al fronte, così come era affermato nella corrispondenza della Dalser?
Inoltre nei rapporti della polizia, lo stato mentale della Dalser era attestato con precisione. In essi si evidenziava «la cattiva condotta specie morale essendosi data alla vita allegra riservatamente», nonostante i piagnistei e le accuse di ogni genere contenute nella sua nutrita corrispondenza e la malattia del figlio, che – a suo dire – era pallidissimo tanto da sembrare un cadaverino. Tutto quindi – a mio giudizio – con i prevedibili successivi aggravamenti, con attestazioni mediche e dovizia di particolari e in tempo non sospetto, preesisteva alle vicende ipotetiche successive narrate nel film e nelle inchieste giornalistiche antecedenti e postume alla realizzazione della pellicola di Bellocchio.
Entriamo pertanto brevemente in questa all’epoca martellante campagna mediatica che prescinde dalla realtà dei fatti precedenti, del tutto ignorati, e arriva conseguentemente a conclusioni immaginarie, inventate di sana pianta.
Nel film di Bellocchio, così come sulla stampa e nei documentari televisivi precedenti e successivi si sosteneva la tesi che la Dalser, autodefinitasi moglie di Mussolini, e suo figlio Benito Albino, riconosciuto dal padre, siano stati perseguitati dal duce, che avrebbe procurato loro la morte in manicomio. Strumento di tale perversa azione sarebbe stato il fratello di Mussolini, Arnaldo (tra l’altro molto religioso così come la sorella Edwige e la madre Rosa Maltoni), il quale, con le sue forti pressioni sulle Autorità e sui medici (un otorinolaringoiatra ed un generico) avrebbe determinato il ricovero in manicomio di due persone sane di mente.
Il titolo del film, Vincere, presentato poi al Festival di Cannes, secondo anche una intervista al regista, non si riferiva al famoso discorso di mussoliniana memoria del «Vincere e vinceremo», ma voleva significare la vittoria della povera Dalser sul duce.
La tesi della campagna mediatica risulta molto fragile, se non del tutto priva di fondamento. Lo stesso ventilato dualismo in riferimento all’intervento-neutralità alla vigilia della prima guerra mondiale non ha alcuna sostanza, in quanto la Dalser aveva seguìto il suo amante nei passaggi dal socialismo all’interventismo ed anzi, come ella stessa asserisce nei documenti qui riproposti, era stata una delle finanziatrici del suo giornale, “Il Popolo d’Italia”, battistrada della campagna in favore dell’intervento in guerra del nostro Paese.
Allo stesso modo l’altro dualismo borghesia-proletariato che avrebbe contrapposto la Dalser a Mussolini risulta inesistente, dal momento che nei documenti originali che qui di seguito si possono verificare, la Dalser, che scriveva di appartenere ad una delle famiglie più in vista del Trentino e che si accreditava come professoressa, disdegnava ogni collocazione nella sfera sociale del proletariato. Pertanto, sotto l’aspetto storico-politico, di cui l’opera di Bellocchio è permeata, essa risulta falsa e inconsistente.
Ebbene su quest’opera, preceduta da alcune trasmissioni televisive molto determinate ma poco documentate nella tesi accusatoria – tra cui una di Arrigo Petacco del 7 agosto 2006 più riflessiva, nella quale però si affermava che effettivamente la Dalser fosse matta, ma che lo sarebbe diventata in seguito ai soprusi subìti – si è sviluppata la campagna mediatica in cui si sono sbizzarriti molti scrittori e giornalisti accreditati ma senza quei freni inibitori favoriti da un minimo di cultura storica. Sono intervenuti con articoli di molte colonne, arricchiti da fotografie della Dalser e del piccolo Benitino, tra gli altri, la giornalista Simonetta Fiori che dedicava all’argomento la pagina culturale de “la Repubblica” del 19 gennaio 2006, la quale riproponeva le opere di alcuni scrittori che in passato si erano occupati dell’episodio, presentandoli quali scopritori di documenti inediti, tra cui alcune lettere di Mussolini, conservati dalla sorella di Ida, Adele, appartenenti – così nel testo – ad una «solida famiglia di montanari». Apprezzabile opera di ricercatori, senza considerare il fatto basilare, che l’intera documentazione prodotta – tra cui la lettera di Mussolini al fratello Arnaldo – è successiva a quella, che qui si riproduce, e pertanto del tutto ignorata.
Dopo questo interesse preliminare alla vicenda, il “Corriere della Sera” del 18 marzo 2007 dedicava un’intera pagina della rubrica “Spettacoli” (che riprendeva un inizio addirittura dalla prima) ad un’intervista al regista Bellocchio. L’articolo portava la firma in calce di Aldo Cazzullo, il quale sottoscriveva tutto quanto asseriva il regista, compresi giudizi svolazzanti sull’attualità confrontata con quel periodo, e soprattutto presentava il suo film come basato su «un copione storico, imperniato su Ida Dalser». Lo stesso Cazzullo ritornava sull’argomento sullo stesso quotidiano nel numero del 6 maggio del 2009, sempre nella rubrica “Spettacoli”, con un articolo che, tra l’altro, riportava alcune illustrazioni del metodo prescelto nel film di Bellocchio, permeato da alcune banalità arcinote, aggiungendovi qualche amenità circa l’arresto e il conseguente invio al «confino» di Caserta della Dalser. Cazzullo evidentemente ignorava la prassi delle autorità di quel convulso periodo nei confronti dei profughi delle terre del confine orientale dell’Italia: ne è esempio eloquente la destinazione del futuro ministro Silvio Gava, di Vittorio Veneto, nel campo dei profughi di Capua, passato poi in quello di Castellammare di Stabia dopo Caporetto.
Il “Corriere della Sera” dimostrava di essere molto convinto e impegnato nella vicenda Dalser-Mussolini, pubblicando inoltre un articolo a firma di Dino Messina del 16 dicembre 2010 circa la corrispondenza della donna col direttore del giornale Luigi Albertini. Nello scritto si definiva la Dalser – citando la prefazione di Benedusi ad un libro precedente sull’argomento – «una donna coraggiosa e moderna pur se fragile e con tratti maniacali», alla quale Albertini non concesse alcun credito circa i promessi documenti sensazionali di accusa a Mussolini sui finanziamenti francesi a “Il Popolo d’Italia”.
L’apice della campagna giornalistica del”«Corriere della Sera” venne però toccato dall’articolo di Alberto Melloni dall’eloquente titolo Il volto cinico di una dittatura, pubblicato il 22 giugno 2009. Lo storico si spinse ad affermare, avanzando un’ipotesi a dir poco temeraria, che il film Vincere sarebbe piaciuto a Renzo De Felice, il più grande storico del fascismo. Aggiungeva addirittura che l’opera avrebbe potuto costituire un tomo supplementare defeliciano dal titolo Mussolini il lurido. Tale giudizio attesta che Melloni poco ha letto o non ha ben compreso non solo i documenti ma neppure una pagina degli scritti di De Felice, che si era occupato – come abbiamo visto – della vicenda con qualche riferimento specifico in una circostanziata nota del suo primo libro della biografia di Mussolini senza fare alcun cenno ad un’azione di pressione da parte del duce finalizzata al ricovero in manicomio della sua ex amante e di suo figlio.
Non poteva mancare in questa rapida rassegna sulla campagna mediatica cartacea, televisiva e cinematografica un intervento di Corrado Augias, il quale, in una puntata della trasmissione che all’epoca conduceva, “Enigma”, datata 3 luglio del 2008, promosse un dibattito tra il filosofo Gianni Vattimo, la professoressa Anna Bravo, il regista Bellocchio e lo storico Emilio Gentile. Quest’ultimo, da me a suo tempo consultato telefonicamente, ammise con molta onestà di non conoscere la documentazione dell’antefatto. In particolare, la Bravo si impegnò in una disamina femminista ad oltranza, secondo cui le amanti di Mussolini erano solo sfruttate e sottomesse: evidentemente la professoressa non conosceva i termini del rapporto con l’anarchica Leda Rafanelli e soprattutto quelli con Margherita Sarfatti, rispetto alle quali il futuro duce del fascismo aveva subito una marcata influenza.
I partecipanti al dibattito accreditavano inoltre la tesi della Dalser quale eroina antifascista, ignorando in tal modo i finanziamenti da lei ripetutamente rinfacciati a Mussolini all’atto della fondazione del giornale interventista, poi fascista, “Il Popolo d’Italia”, di cui abbiamo già fatto cenno. A conclusione della trasmissione venne mostrato un documento che smentiva inavvertitamente tutto l’assunto sviluppato nel salotto precedente, dal quale risultava che la Dalser, nel prosieguo della sua vita disordinata, aveva avuto altri due figli non si sa da chi, a riprova del carattere labile della donna, che si dava alla ‘bella vita’ così come a Napoli.
Come si evince da questa rapida rassegna mediatica a commento di una triste vicenda a carattere personale e familiare, essa è stata ampliata a dismisura per il solo fatto che il protagonista era Benito Mussolini, che andava comunque colpito e sminuito, senza preoccuparsi troppo dell’attendibilità dei fatti. Siccome la vicenda si ripropone periodicamente, ho ritenuto con questo mio intervento di porre un punto fermo ristabilendo la verità dei fatti, che stridono con la campagna mediatica immediatamente precedente e successiva all’apparizione del film Vincere, fulcro e cassa di risonanza di una vicenda ricostruita senza alcun fondamento storico.
[i] R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario 1883-1920, Einaudi, Torino 1965. Cfr. inoltre C. Rossi, Trentatre vicende mussoliniane, Ceschina, Milano 1958.
Per la vicenda in oggetto, si vedano i documenti qui in allegato: