Alice Zaccagnini (2000) ha una laurea triennale in Filosofia presso la Sapienza di Roma, percorso in cui si è concentrata sulle implicazioni etiche dell'evoluzionismo di Darwin; ha da poco conseguito la laurea magistrale in Scienze Filosofiche presso l'Università degli Studi di Milano con una tesi sul pensiero di G. H. Mead alla luce delle contemporanee scienze biologiche e post-cognitive ed è Consulente Filosofico e Professionista in Pratiche Filosofiche presso l' Associazione Pragma. Si interessa di pragmatismo americano e di filosofia della scienza, in particolare di filosofia della biologia e di evoluzionsimo, con una forte attenzione all'epistemologia, al ruolo storico delle pratiche scientifiche, al rapporto tra evoluzione culturale ed evoluzione biologica e alle teorie post-cognitive della mente.

 

Recensione a: T. Pievani, Finitudine. Un romanzo filosofico su fragilità e libertà, Raffaello Cortina Editore 2020, pp. 280, € 16,00.

«Ho sempre amato la frase di Democrito “tutto ciò che esiste nell’universo è frutto del caso e della necessità”» (p. 63), racconta Albert Camus all’amico Jacques Monod, steso su un letto di ospedale. È il 17 gennaio 1960 di un mondo possibile, edificato dalla fantasia e dall’immaginazione di Telmo Pievani, filosofo evoluzionista che in Finitudine ci racconta un dialogo mai avvenuto, ma che sarebbe potuto avvenire. Nella realtà dei fatti Albert Camus è morto in un incidente il 4 gennaio del 1960. Ma cosa sarebbe successo se fosse sopravvissuto?

Da questa piccola deviazione nella trama storica del tempo prende avvio un romanzo filosofico, così come lo definisce lo stesso autore, che apre alla possibilità di pensare a un mondo alternativo non meno credibile di quello reale; un mondo in cui L’ultimo uomo e L’uomo e il tempo, rispettivamente gli scritti del filosofo Camus e dello scienziato Monod, non sarebbero rimasti incompiuti ma sarebbero confluiti in un libro scritto a quattro mani.

Nella realtà, il volume prende forma nel 2020 dalla penna di Pievani ma ogni pagina è intrisa dall’esperienza e dalla riflessione dei due amici e di un quarto autore, Lucrezio, che Pievani immagina essere il nume di tutte le intuizioni contenute nello scritto.

Finitudine si sviluppa dunque su due piani di realtà: da un lato vi è il libro scritto a sei mani, sotto l’ascendente di Lucrezio, dall’altro una narrazione immaginata del dialogo tra Camus e Monod, intenti a indagare le possibilità di sfidare il senso di nichilismo che accompagna il Novecento e il cambio di paradigma e di valori che la scienza moderna ha portato con sé.

Il volume è un’ulteriore occasione per Pievani di rendere esplicita e reale l’implicazione culturale, quotidiana, della scienza odierna. Telmo Pievani è un filosofo particolare: primo in Italia a tenere una cattedra di Filosofia delle Scienze Biologiche presso l’Università di Padova e impegnato fin dalla specializzazione nella ricerca evoluzionistica. Autore di numerosi libri e grande divulgatore scientifico, dialoga attivamente con la scienza venendo meno alla mera classificazione tra scienze dure e umanistiche che caratterizza ancora gli ambiti della nostra conoscenza. Finitudine è un esempio di questo impianto metodologico e teoretico in cui l’autore affronta criticamente e da punti di vista differenti i modi e i metodi che, tutt’oggi, l’essere umano applica per fuggire dall’unica vera necessità: la finitudine di tutte le cose.

Nel dialogo i due premi Nobel si confrontano sulle loro esperienze concrete, si raccontano le loro vite, il dramma e le vicissitudini della Seconda guerra mondiale e della Resistenza, dello scientismo e della dittatura politica dell’Unione Sovietica. Tuttavia, il volume non è un romanzo storico o una biografia, nonostante ci racconti la vita di due tra i personaggi più rilevanti del Novecento, facendo emergere dalle loro esperienze tutta la fragilità e il coraggio che accompagna le loro storie; non è nemmeno uno scritto prettamente politico, sebbene ci ponga davanti a domande che necessitano una presa di coscienza sulle nostre pratiche. È uno scritto filosofico, esistenziale, che prende in esame il gioco ricorsivo tra caso e necessità, contingenza e finitudine, due concetti che descrivono un’immagine dell’universo «senza centro né disegno, disomogeneo, senza alcuna gerarchia nei punti di osservazione» (p. 47), un mondo in cui la nostra esistenza non appartiene a nessun disegno intelligente e superiore: siamo qui, ma avremmo potuto non esserci.

Il libro di Pievani ci mette di fronte a questa realtà e ci racconta come per secoli, dai tempi in cui questa verità appariva nelle poesie di Lucrezio e nei trattati di Democrito, l’uomo non abbia fatto altro che sfuggirle, dando fiducia all’Assoluto, agli Dei, all’anima, al fine ultimo, al senso intrinseco della nostra esistenza. Leibniz lo aveva capito bene, siamo gli «esseri finiti che conoscono l’infinito» (p. 46), esseri che si interrogano ininterrottamente sul futuro, sulla morte, rinnovando continuamente la crepa tra il nostro spirito individuale e la natura. E probabilmente, così come ipotizzano gli studi di archeologia cognitiva, intenti a studiare le prime pratiche simboliche dei nostri predecessori, fu proprio questo il modo in cui iniziammo a pensare.

Tramite una serie di contingenze evolutive siamo diventati quegli esseri strani che Pievani chiama «effimeri cercatori di senso» (p. 52): effimeri perché, in quanto parte del mondo, partecipiamo al suo divenire transitorio, e cercatori di senso perché proprio questa funzione di slancio che ci permette di proiettare la realtà su un passato e su un futuro e di immaginare quello che non c’è, è ciò che ci definisce, ciò che ci differenzia dalle altre specie. Ma «la scienza recente ci insegna la misura delle cose, il senso del limite, la relatività dei nostri concetti contro ogni assolutismo» (p. 113) ricorda Monod all’amico. La stessa natura di cui siamo figli e parte ci lascerà andare, forse perché tra un miliardo di anni il Sole sarà più caldo, o forse perché prima altre catastrofi potrebbero annientare tutto ciò che vive.

Il libro di Pievani è una riflessione su questo limite, sull’impossibilità di prolungare le nostre memorie all’infinto: la colonizzazione di un altro pianeta, i sistemi di crioconservazione del nostro corpo, la clonazione genetica e perfino la trasposizione dei nostri processi neuronali in una rete artificiale, non ci permetteranno di sfuggire alla necessità della finitudine.

Al centro della questione vi è allora la società moderna che, sebbene si serva del progresso scientifico e si alimenti tramite questo, non è in grado di accogliere «il messaggio più radicale e sovversivo della scienza: la rottura dell’antica alleanza animistica» (p. 45). Un’alleanza visibile in tutte le narrazioni metafisiche che dalle cosmologie tribali alla fiducia cieca nel progresso tecnologico accompagna la normatività dei valori e la perenne ricerca di significato.

In questi termini, il libro si inserisce perfettamente nel contesto contemporaneo, ponendo in evidenza il ruolo della scienza odierna che solo apparentemente sfugge all’impostazione animistica, riproponendola celata in una nuova veste, quella del progresso. Ma oggi sappiamo che «la natura non ha padroni superiori» (p. 46) e che «l’evoluzione non è una legge, ma un fenomeno, un processo contingente» (p. 139) per cui ogni fiducia cieca nel progresso, sia esso civile, morale, tecnico o scientifico è destinata a rimanere un’illusione.

Cosa fare allora di colui che sente il peso del disincanto? Di colui nato cercatore di senso che capisce che il senso non c’è? Si tratta, con le parole di Pievani, di una «contraddizione evoluzionistica» che nasce dal confronto «tra l’insopprimibile richiamo umano e il silenzio disarmante del mondo» (p. 54). Come poter convivere con l’idea che la nostra esistenza è figlia della contingenza evolutiva, di una serie di momenti che nel loro intrecciarsi hanno dato vita a questo strano essere, l’Homo sapiens, e che, per quanto egli ne sia convinto, non ha alcun posto privilegiato nell’universo?

Esiste allora un modo per accogliere il consiglio di Tolstoj, di vivere in modo da dare un senso alla nostra vita che la morte non possa rapire? Ma, soprattutto, come poter sfuggire alla finitudine di tutte le cose? Per Pievani, Monod e Camus si tratta di riconsiderare il concetto di libertà che dalla consapevolezza e dall’accettazione della contingenza storico-evolutiva emerge con un nuovo significato.

Il libro di Pievani non invita infatti ad aspirare all’immortalità; al contrario, invita ad «assumere la finitudine, accettarla, smettere di tradirla invano e affrontarla a viso aperto» (p. 241). Ciò si traduce nell’impegno in un nuovo ordine etico, che non è imposto all’uomo se non nella misura in cui egli stesso se lo impone: un’etica della conoscenza, così come la chiama Pievani, che sia in grado di tenere insieme la nostra vulnerabilità e la nostra libertà di scelta e di riabilitare tale libertà alla luce dell’irripetibile opportunità per cui siamo vivi. La finitudine, infatti, «ci restituisce la conoscenza per la meravigliosa opportunità che abbiamo avuto di esistere» (p. 258). Rispetto a ciò, il romanzo filosofico offre un terreno per poter ripensare alle nostre pratiche e ai nostri valori: una tale consapevolezza dell’assenza di senso ci permette di creare un diverso significato di comunità, di umanità, di solidarietà, un nuovo significato laico e materialistico della vita. E in questa sfida verso un nemico invincibile, quale ruolo per lo scienziato? Egli è il miglior interprete di questa rivolta poiché nel lavoro scientifico «la filosofia del finito diventa una filosofia della libertà: libertà di conoscere dinanzi all’inesauribilità dell’universo» (p. 275), per cui la scienza si mostra in prima linea nella sfida all’ignoto.

Il lavoro dello scienziato è infatti la fatica di Sisifo poiché «aggiunto un macigno alla montagna della conoscenza, ecco affacciarsi nuove domande» (p. 275) e il bello della ricerca risiede proprio in questo suo impossibile completamento. L’etica della conoscenza vuole allora ispirarsi a tale condizione poiché «grazie alla scienza, la nostra contingenza e la nostra finitudine non implicano né nichilismo né cinismo» (p. 276). Al contrario, aprirsi alla finitudine significa attribuire un valore unico alla vita, prendere consapevolezza di questa irripetibile opportunità e «sorridere di fronte all’assurdità del proprio destino» (p. 276).

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