Daniele Durante è laureato in Lingua e letteratura giapponesi presso l'Università di Roma "Sapienza", dove attualmente ricopre il ruolo di dottorando. Ricercatore, cultore della materia e traduttore, si occupa principalmente dello studio del male same-sex love nella storia e nella letteratura del Giappone premoderno e secondariamente di cultura pop contemporanea.

Recensione a
Y. Mishima, Confessioni di una maschera
trad. it. a cura di M. Bonsanti
Feltrinelli, Milano 2013, pp. 224, € 11,00.

Nel 1949 Yukio Mishima (1925-1970) completa la stesura di un’opera intitolata Confessioni di una maschera (Kamen no kokuhaku), un inusuale romanzo che indaga i moti della psiche di un giovane omosessuale, noto al lettore solo tramite l’appellativo di Ko, e la sua fascinazione per gli uomini caratterizzati da quello che il protagonista-narratore definisce un “destino tragico”. Con tale espressione, egli indica un inebriante afflato vitale che, secondo il suo sofisticato immaginario, porterebbe tali individui a condurre un’esistenza sì drammatica per la morte prematura e violenta che li attenderebbe, ma altrimenti ricca di avvenimenti e colma di significato. Tale ammirazione rappresenta per Ko una volontà di partecipare alla pienezza della vita di cui essi godono, una grandezza alla quale egli, affetto da patologie croniche e inibito da un intelletto lucido e implacabilmente cinico, anela senza successo.

Subito dopo la pubblicazione, il racconto vale a Mishima il riconoscimento della critica giapponese, che legge il testo come una potente metafora dell’evirazione simbolica che il popolo del Paese avrebbe subito in seguito alla sconfitta riportata nella seconda guerra mondiale, conclusasi recentemente. A fianco di questa interpretazione allegorica si impone, soprattutto all’estero, una seconda esegesi in chiave biografica, secondo la quale Confessioni di una maschera trasporrebbe su carta la storia dell’autore e documenterebbe quindi la presunta omosessualità di Mishima.

A prescindere da tali possibilità di lettura, che pure testimoniano la ricchezza dei significati attribuibili al materiale contenuto nell’opera, Confessioni di una maschera segue l’impostazione di un modello assai preciso, quello della letteratura psicanalitica in auge al tempo della sua scrittura. Come uno psicoterapeuta della prima metà del XX secolo, il protagonista riporterebbe su di un taccuino la biografia di un paziente, illustrandola con eventi e aneddoti tratti dalla sua esperienza di vita, in modo da pervenire a una diagnosi. Ko si sottopone ad un’autoanalisi, riferendo in prima persona la sua storia tramite episodi che, nell’intenzione autoriale, esporrebbero i tratti salienti della sua struttura psichica.

Mosso dall’intenzione di svelare se stesso, Ko indulge con dovizia di particolari, non scevra da un certo autocompiacimento, nel tratteggiare le fantasie che gli uomini dal cosiddetto destino tragico ispirano in lui. Prima in ordine cronologico si staglia la figura di un vuotatore di pozzi neri: alla sua vista il precoce protagonista, che all’epoca ha solo quattro anni, avverte per la prima volta la spinta, irresistibile, di un desiderio in lui connaturato che lo induce a contemplare il fisico tornito del giovane, associandolo a un ideale di drammatica autorinuncia. Segue poi il San Sebastiano dipinto da Guido Reni (1575-1642), la sensualità delle cui carni penetrate da un nugolo di frecce permette a Ko, ora adolescente, di esperire in forma più precisa l’insorgere di questo languore e comprenderne la natura specificamente erotica. Le immagini che tale parata di forme virili suggerisce al narratore possiedono in comune l’elemento del destino tragico, una rovinosa dipartita verso cui esse marciano a testa alta, una morte orribile che si compie sadicamente, spesso nelle visioni di Ko per sua mano, proprio straziando di questi uomini il corpo perfetto, esternazione al tempo stesso della loro forza interiore e mezzo per il quale fatalmente giunge la fine.

Arrivato alle soglie dell’età adulta, Ko tenta di convertirsi all’amore per le donne. Egli si decide a questo passo spinto da una forte insoddisfazione di sé, una frustrazione dietro la quale si cela l’influenza della psicanalisi classica di Sigmund Freud (1856-1939), la cui teoria sull’omosessualità, interiorizzata dal personaggio, spiega questa condizione come un presumibile arresto dello sviluppo psichico. Emanciparsi da questa tendenza significherebbe dunque per il protagonista rinnegare la propria infanzia e fanciullezza, segnate da quella commistione di voluttuosa ammirazione e doloroso senso d’inferiorità la quale Ko prova verso gli individui dal destino tragico, per rivendicare la sua maturità e, con essa, la possibilità di diventare egli stesso uno di quegli uomini.

Il narratore si sente spronato ad agire in questo senso anche in considerazione delle aspettative di genere che la società contemporanea, alla quale nel volume danno voce i familiari e i compagni di scuola del protagonista, ascrive agli uomini. Spronato da coloro che lo circondano, egli avverte la necessità di corrispondere a queste attese già da bimbo, come dimostra nella sezione in cui gioca alla guerra inscenando di fronte ai parenti, con evidente appagamento, la sua terribile uccisione sul campo di battaglia. Adesso ventenne, Ko aspira a guadagnarsi il favore e il rispetto altrui adeguandosi alle convenzioni sociali e alle concezioni psicanalitiche comunemente accettate nel Giappone del periodo, in un bisogno di celare il proprio io simboleggiato dalla metafora, presente già nel titolo, della maschera come emblema della finzione.

Tuttavia, l’ambizione di votarsi al culto del femminile, un proposito delineato con cura dal terso raziocinio del personaggio, si scontra ben presto con la sua medesima contraddittorietà. Se da una parte, infatti, il protagonista si propone in maniera genuina di infatuarsi delle donne, dall’altra interpreta il disegno di divenire egli stesso una figura dal destino tragico come, paradossalmente, una forma di ammirazione rivolta a quelle stesse icone maschili da lui venerate, un amore che giungerebbe a fruizione una volta che Ko si fosse identificato con loro. In altre parole, egli non potrebbe dirsi eterosessuale poiché in lui l’imitazione degli uomini coinciderebbe con l’adorazione per essi. Inoltre, il narratore si rende conto del fatto che la sua omosessualità, in quanto indole connaturata, sfugge inesorabilmente al controllo della volontà intellettuale, il che vanificherebbe ogni sforzo orientato in altra direzione. Il conseguente dilemma che Ko vive fra il pensiero e la carne trova un’efficace espressione nell’ossimoro usato come titolo del romanzo: la maschera che la ragione intima al protagonista di indossare, simbolo di conformismo, viene rimossa dal suo volto dalle confessioni a cui egli si lascia andare, ammissioni che lo portano a riconoscere il vero circa la sua pulsione omosessuale e la sua percepita alterità.

In conclusione, Confessioni di una maschera si svolge come l’analisi dell’incongruenza che si instaura fra l’intelletto e l’erotismo di Ko. L’impraticabilità di condurre a termine la ricerca raziocinante dell’eterosessualità si intuisce nella scena finale del libro, nella quale il personaggio si reca in una sala da ballo insieme a una ragazza da lui corteggiata. Tuttavia, invece di inscenare con lei la parvenza di una relazione, egli si lascia ammaliare dal corpo seminudo di un ballerino, smentendo platealmente ogni pretesa di saper amare una donna. D’altro canto, Ko non può nemmeno vivere la propria omosessualità, come dimostra un altro avvenimento centrale del racconto, quello in cui, da bambino, egli legge con trasporto la storia di un cavaliere a cui ascrive il vagheggiato destino tragico, salvo poi scoprire che non si tratta di un uomo ma di Giovanna D’Arco (1412-1431). Turbato dal divario che l’errore svela fra il suo immaginario e lo stato oggettivo delle cose, il narratore definisce l’impossibilità di concretizzare le sue fantasie come la «vendetta della realtà». Pertanto Ko prende consapevolezza che non può né costringersi eterosessuale né realizzare il suo ideale omoerotico, il quale rimane all’opposto una chimera. Di conseguenza, l’Autore non mostra la vittoria di uno dei due poli, ragione e desiderio, sull’altro, quanto piuttosto descrive l’insolubilità del loro stesso paradosso. In questo modo, Mishima esamina implacabile la caduta del suo protagonista nella rete delle contraddizioni che il pensiero da un lato e l’eros dall’altro tessono come un ragno in attesa della preda.

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