Antonio Messina (1989) è Ph.D. Student in Scienze Politiche all’Università di Catania e Visiting Ph.D. Fellow presso l'Università di Leiden (Paesi Bassi). È redattore del semestrale «Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee», da lui fondato; è socio della Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea (SISSCO) e dell’Istituto euro-arabo di Mazara del Vallo. È membro del comitato scientifico della rivista «La Razón histórica: revista hispanoamericana de historia de las ideas políticas y sociales». I suoi principali interessi concernono la filosofia politica, la geopolitica, e la storia delle dottrine politiche, con particolare riferimento alla storia intellettuale dei regimi autocratici. Tra le sue pubblicazioni: L'economia nello stato totalitario fascista (Ariccia 2017); Giovanni Gentile. Il pensiero politico. Scritti e discorsi 1899-1944 (Roma 2019); Comprendere il Novecento tra storia e scienze sociali. La ricerca di A. James Gregor (Soveria Mannelli 2021).

Tra gli anni ʼ50 e ʼ60 Nasser si pose come punto di riferimento e come faro di speranza di tutto il mondo arabo e delle varie rivoluzioni progressiste che ne hanno attraversato la storia. Comprese e approfittò della peculiarità geostrategica dell’Egitto nel mondo arabo per veicolare l’ideologia del panarabismo. I numerosi discorsi tenuti da Nasser[1] miravano a divulgare le idee del panarabismo, facendo frequentemente appello all’Egitto arabo e all’unità degli arabi. Nel 1953, nel primo anniversario della trasmissione radiofonica La Voce degli Arabi, Nasser si riferì a tutti gli arabi come a «una nazione», collocando l’Egitto entro quella stessa nazione[2]. L’idea di Egitto come parte della nazione araba fu altresì promossa da Nasser nella Carta di azione nazionale del 1962, dove si sottolineava che «non esiste alcun conflitto tra nazionalismo arabo e patriottismo egiziano»[3].

Durante tutta la sua carriera politica, i discorsi di Nasser continuarono continuamente a evocare l’idea del panarabismo, instillando nelle menti degli arabi che l’unità e la cooperazione erano necessari tanto per difendersi dalle mire imperialistiche dell’Occidente quanto per il conseguimento del benessere degli stessi arabi[4].

In un discorso tenuto nel luglio 1957, Nasser affermò chiaramente che il nazionalismo arabo costituiva un’arma a disposizione dei paesi del Medio Oriente per contrastare qualsiasi tipo di intervento straniero. In quell’occasione, affermò inoltre che se un potenziale aggressore avesse deciso di attaccare un paese arabo, avrebbe messo in pericolo i suoi stessi interessi[5]. In questo modo, l’Egitto di Nasser è stato in grado di modellare e cavalcare l’ondata del panarabismo, di diffonderne i motivi principali nella regione del Medio Oriente e di porsi come modello ispiratore di altri paesi.

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Sul versante del cerchio africano, Nasser si fa sostenitore e propugnatore del panafricanismo, cioè della ricerca di forme di solidarietà e di unità del continente africano. Negli anni in cui Nasser stava componendo la sua Filosofia della Rivoluzione, il continente africano era attraversato dalle ardue lotte per la decolonizzazione, ed in molti casi l’indipendenza venne raggiunta attraverso cruente e sanguinose lotte. La fiamma dell’indipendentismo divampa nei cuori degli africani e Nasser coglie l’occasione per estendere la sua lotta all’Occidente padrone su un piano continentale e accrescere il prestigio e la posizione internazionale dell’Egitto. Il presidente egiziano non esita così a sostenere i ribelli algerini contro la Francia durante la guerra d’indipendenza (1954-1962), garantendo loro protezione e addestramento. Sostiene inoltre l’insurrezione “Mau Mau” per l’indipendenza del Kenya, attraverso un’intensificata campagna diplomatica e mediatica contro l’occupazione britannica. Venne istituita una stazione radio per supportare il popolo keniota nella sua lotta per la liberazione. La Voce dell’Africa ​​è stata la prima stazione radio in lingua kiswahili ad essere trasmessa da una nazione africana (l’Egitto) per sostenere il Kenya nella sua battaglia per l’indipendenza.

L’Egitto fece della “rivolta Mau Mau” una causa africana e cercò di ottenere la liberazione del leader keniota Jomo Kenyatta (1889-1978), detenuto dalle autorità britanniche nel 1961. Il Cairo fu la prima capitale di un paese ad ospitare i combattenti per la liberazione del Kenya, e Nasser «ha espresso la volontà dell’Egitto di cooperare pienamente con il Kenya e altri paesi africani per promuovere il potere dell’Africa e sviluppare le risorse del Continente, contribuendo a rafforzare la sua unità»[6]. Gli sforzi dell’Egitto a sostegno della liberazione del Kenya hanno portato all’indipendenza del paese nel 1963, e l’anno seguente, in occasione della seconda conferenza dell’Organizzazione dell’Unità Africana tenutasi in Egitto, furono gettate le basi di una cooperazione militare con il Kenya. L’Egitto provvide ad inviare esperti militari in Kenya per l’addestramento dell’esercito keniota e il Kenya inviò ufficiali kenioti per l’addestramento in Egitto.

L’Egitto non avrebbe potuto, secondo Nasser, disinteressarsi delle lotte per l’indipendenza dei paesi africani:

Non possiamo in nessun modo, anche volendolo, ignorare la lotta accanita che si svolge oggi nel cuore dell’Africa fra 5 milioni di bianchi e 200 milioni di Africani. È impossibile per la semplice ed evidente ragione che ci troviamo in Africa. Tutti i popoli di questo Continente continueranno a volgere lo sguardo verso di noi come verso i custodi della porta settentrionale del continente stesso, e verso il nostro territorio che riallaccia l’Africa al mondo esterno. Non possiamo in nessun modo venir meno alla responsabilità che ci incombe di collaborare con tutte le nostre forze alla propagazione della civiltà fino alle foreste vergini (pp. 67-68).

Gli interessi africani di Nasser concernevano anche altri temi e questi riguardavano il Nilo e il Sudan. Il primo era, ed è tutt’oggi, l’arteria vitale del paese, il blocco delle cui acque avrebbe causato gravi danni all’economia e alla popolazione, quindi era fondamentale controllare il suo corso. Il secondo era considerato un «territorio fratello», conquistato da Mehmet Ali tra il 1820 ed il 1822 e poi posto sotto il dominio congiunto anglo-egiziano a partire dal 1899. Nasser farà un tentativo per riunificare i due territori, ma invano, poiché nel 1956 il Sudan si dichiarerà indipendente.

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Infine il cerchio islamico. Mentre i primi due cerchi si riferiscono ad aree geograficamente circoscritte, il terzo, quello islamico, non ha confini, estendendosi praticamente a tutti i continenti e ponendo le basi di una progettualità panislamica. Nasser intravede nel pellegrinaggio a La Mecca una «forza politica incalcolabile», ed immagina di renderlo un «Congresso politico periodico», una sorta di «Parlamento islamico mondiale», assegnandogli un valore che vada oltre il solo significato religioso, che comunque non sarebbe dovuto venir meno. Si tratta di un evento dove politici, uomini di dottrina, scrittori, industriali, commercianti, vecchi e giovani, uniti nella fede in Allah, studiano le grandi linee di una politica comune a tutte le nazioni islamiche, superando le differenze etniche e nazionali e fondendosi in un unico popolo, forte e temuto dai nemici, «aspirant[e] all’altra vita ma coscient[e] comunque di avere una missione da compiere in questa» (p. 69). Anche qua, come in tutti gli altri cerchi, l’unità è la base per l’ascesa ed il punto di forza, con l’Egitto nelle vesti di guida e araldo di popoli e nazioni.

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La Filosofia della Rivoluzione fissa i cardini di un programma con cui Nasser sperava di dare all’Egitto un ruolo di leadership (ma non di comando) e di congiunzione di tre mondi: arabo, africano, musulmano. All’Egitto era affidato il compito di attuare i grandi progetti panarabo, panafricano e panislamico, perché solo attraverso un forte sentimento di comunanza e di unione era possibile combattere quei comuni nemici europei – che per troppo tempo si erano eretti padroni su terre che non erano loro – ed affrontare con successo le ardue sfide connesse a quella che Ortega y Gasset ha argutamente definito «modernità invasora»[7]. Solo attraverso l’attuazione di un programma geopolitico così ambizioso e articolato l’Egitto poteva sperare, secondo Nasser, di esercitare un ruolo di primo piano in un contesto internazionale dominato dalla guerra fredda tra Usa e Urss, scongiurando così il rischio di essere travolto dai furori di un antagonismo che non rispondeva ai bisogni e agli interessi degli egiziani.

La rivoluzione di Nasser rappresentò per l’Egitto un’epoca di speranza e di relativa prosperità. Le riforme sociali di Nasser, la redistribuzione della terra, la copertura sanitaria universale e l’istruzione gratuita, in un paese che aveva sofferto secoli di servilismo e di arretratezza, catapultarono la nazione nell’età moderna. Nei primi 15 anni di rivoluzione si assistette ad un incremento vertiginoso di molti indicatori socio-economici, quali ad esempio l’alfabetizzazione di massa, l’aspettativa di vita, i salari reali, l’equa distribuzione del reddito e i tassi di crescita produttiva. Lo sviluppo sociale ed economico e le politiche di nation e state building erano funzionali al processo di insubordinazione, volto a rendere la nazione indipendente dall’egemonia straniera, assegnandole un ruolo di protagonismo nello scacchiere internazionale. Con il regime nasserista l’Egitto aspirò ad essere una delle maggiori potenze arabe e africane, offrendo un importante contributo al Movimento dei paesi non allineati e alle lotte di liberazione nazionale. La rivoluzione di Nasser rappresentò il tentativo di ricercare una «terza via» tra il capitalismo e il comunismo, di creare un sistema politico nuovo e in armonia con i valori tradizionali e religiosi del paese: una via araba al socialismo, perché rispondente ai bisogni e alle specificità della nazione egiziana.

Le pesanti sconfitte militari contro Israele determinarono l’inizio di un processo di delegittimazione del regime e delle politiche nasseriste, incrementando l’insofferenza degli arabi musulmani, che interpretarono le débâcles militari del 1967 e del 1973 come una «punizione divina». Al fallimento di Nasser seguì un rafforzamento dell’islamismo radicale, attraverso la diffusione degli scritti di Sayyid Qutb (1906-1966), principale ideologo dei Fratelli Mussulmani, che il regime aveva fatto impiccare nell’agosto del ’66. Qutb aveva osteggiato fortemente i regimi arabi nazionalisti, rivoluzionari e secolari, paragonando la realtà a lui contemporanea alla jahiliyyah, il periodo dell’«ignoranza» pre-islamica. Il regime di Nasser era da lui indicato come barbaro e ignorante del messaggio di Allah. Aspre critiche erano dirette contro il culto della personalità, che doveva essere rivolta esclusivamente a Dio e non ai leader politici, poiché soltanto in Dio risiedeva la sovranità (hakimiyya). Contro il regime «empio» e «corrotto» della jahiliyyah era ammissibile il ricorso alla lotta violenta e all’omicidio

Con la morte di Nasser e l’avvento al potere di Sadat, l’Egitto chiuse il capitolo del socialismo arabo e ne aprì un altro, contrassegnato dall’applicazione della ricetta neoliberista, in specie dopo gli accordi di Camp David (1978), con risultati socialmente disastrosi. La fase neoliberista inaugurata da Sadat rappresentò l’inizio della dipendenza dal libero mercato, l’apertura incondizionata e una forte debilitazione sociale. La fine del modello economico dirigistico e l’apertura (Infitah) voluta dal successore di Nasser consegnarono il paese all’ideologia del laissez-faire e determinarono il sistematico indebolimento dell’Egitto e la sua incorporazione nell’orbita atlantica guidata dagli Stati Uniti. L’Egitto, da parte sua, dovette rinunciare al programma geopolitico della Teoria dei tre cerchi, ad esercitare cioè un ruolo di primo piano nel mondo arabo, africano e islamico, aprendosi alla liberalizzazione dei prezzi, al libero scambio e ai movimenti di capitali, nel quadro di un «abbandono della sovranità statale a una classe pienamente integrata con il capitale globale»[8].

Note bibliografiche

[1] Fra il 1953 e il 1970 sono stati conteggiati 1.359 discorsi pubblici di Nasser (cfr. P. Manduchi, Nasser e il nazionalismo arabo, in “Storia del pensiero politico. Rivista quadrimestrale”, gennaio 2018, p. 20 n. 28).

[2] J. Jankowsk, Arab Nationalism in “Nasserism” and Egyptian State Policy, 1952-1958, in Rethinking Nationalism in the Arab Middle East, a cura di James Jankowski e Israel Gershoni, Columbia University Press, New York 1997, p. 60.

[3] A.M. Awan, cit., p. 117.

[4] Cfr. J. Jankowsk, cit., p. 154.

[5] «Our policy is based on Arab nationalism because Arab nationalism is a weapon for every Arab state. Arab nationalism is a weapon employed against aggression. It is necessary for the aggressor to know that, if he aggresses against any Arab country, he will endanger his interests. This is the way, oh brotherly compatriots, that we must advance for the sake of Egypt, glorious Egypt, independent Egypt» (cit. in Jankowski, 1997, p. 155).

[6] Historical Background of Egypt-Kenya Relations, reperibile online:

<https://africa.sis.gov.eg/english/library/studies/historical-background-of-egypt-kenya-relations/>.

[7] J.O. y Gasset, Una interpretazione della storia universale, SugarCO, Milano 1978.

[8] A. Kadri, The Unmaking of Arab Socialism, Anthem Press, London & New York 2016, pp. 80-81.

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